martedì 20 gennaio 2015

Ritorno a casa.

La mia camera di decompressione è Londra. Ci torno dopo averci vissuto più di 15 anni fa, con l’occasione visito le mie meravigliose sorelle. Per le strade e nei pub mi arriva addosso uno tsunami di ricordi ed emozioni, ma non è questo il posto adatto per parlare, non sono cronache asiatiche.

Camere di decompressione rosse

Dopo una settimana sono a Barcellona. La Sagrada Famiglia ha un pezzo in più, il parco sotto casa mia è stato completato, una strada ha cambiato senso di marcia. Entro nel mio appartamento dopo tre mesi e mezzo: è bello avere un posto dove stare, invece di un bus che ti sballotta tutta la notte con il tubo di scappamento in faccia. I giorni della settimana hanno di nuovo un nome. Con loro torna anche l’insostenibile leggerezza della quotidianità. Un esempio. In Asia mangiare era: scegliere tra un baracchino e quello accanto. Qui è: pensare cosa mangiare, fare la spesa, cucinare, lavare i piatti, buttare la spazzatura.
Ma la cosa che mi colpisce di più è la perduta semplicità delle cose. Durante gli ultimi mesi tra A e B c’era un unico, lineare percorso da fare. Qui c’è una matassa di percorsi possibili: molti farraginosi, molti collegati tra loro o peggio troppo simili tra di loro. È questa, la semplicità delle cose, l’insegnamento che mi porto dietro nel mio bagaglio a mano? Ma soprattutto: chi ha detto che dovevo tornare con qualche insegnamento? Ho gli occhi pieni di bellezza, lo stomaco pieno di sticky rice, il sangue pieno di adrenalina e antitetanica. E un quaderno pieno di racconti: non vi sembra abbastanza? O credevate che sarei tornato illuminato e pieno di rivelazioni?
Sì, anch'io lo credevo. Ma non è colpa mia se non ho avuto la svolta che l’Universo mi ha promesso in sogno, probabilmente a causa di un banale ritardo di treni.
In compenso, adesso so che il mio scopo in questa vita è sterminare i galli.

!Hasta al pròximo viaje!

venerdì 16 gennaio 2015

Back to Europe

Non chiamatemi schizzinoso. Ho mangiato carne di yak andata a male, vermi fritti, grilli, intestini di animali sconosciuti, però il menù della British Airways nun se pò magnà. Come fa uno a passare nel giro di poche ore dalle profumate zuppe di granchio e galangale alla verdura di plastica cementata con il cottage cheese? Mi serviranno diversi giorni per riabituarmi.

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giovedì 15 gennaio 2015

La moda italiana sfida la piazza e i carrarmati

Sono a Bangkok, rispetto a due mesi fa la protesta è montata fino a paralizzare tutto il centro della città. Si parla di blocco totale, addirittura di intervento militare. Ma io ho intenzione di ingozzarmi di pad thai e di tutto ciò che mi capiterà davanti: è il mio ultimo giorno in Asia e devo fare provviste per tutto l'anno. Sono qui per mangiare e niente mi fermerà, nemmeno i carri armati.
Così vado in giro per la città, attraversando impassibilmente con uno spiedino in mano milioni di manifestanti, che stranamente mi guardano tutti male. Forse non mostro sufficiente entusiasmo per la loro causa, ma non so come esprimere loro solidarietà se non addentando più forte la mia anatra al sesamo. Sostengo la lotta dando tutto il mio denaro al popolo, a cambio di qualche simbolico chilo di cibo.

Me li dia tutti, signora, non si sa mai nella vita...
...e anche un pad thai che è da novembre che non lo mangio...
...e anche una dozzina di piatti di questi a caso...
...per chiudere con mango e ananas freschi!

A un certo punto una signora mi avvicina, indica la mia camicia, fa un gesto di disgusto, prontamente condiviso dalla folla. Mi viene voglia di replicare che la moda thailandese non brilla certo per buon gusto, e il suo vestitino leopardato sta a dimostrarlo, ma io sono solo e loro milioni. Decido di rimandare l'apologia dell'Italian Fashion a un'altra volta. La signora insiste, schifata dal mio vestire. Non capisco, non parla inglese. Fa il segno di spararmi, sdegnata. E che cazzo, adesso si esagera, inizio a innervosirmi.
Poi un tipo si mette in mezzo, evitando la rissa, e mi spiega: il rosso è il colore del partito al governo, contestato e odiato da tutti. Mi giro e guardo intorno: milioni di persone e nemmeno un puntino di rosso. Indovinate di che colore sono la mia camicia, la mia bandana e la busta che ho in mano? 

mercoledì 14 gennaio 2015

Hua Lamphong Station. Penso che un sogno così non ritorni mai più…

È con grande trepidazione che sento il mio treno entrare nella stazione centrale di Bangkok, Hua Lamphong. Rallenta, sbuffa, si ferma. Scendo sul binario con l’occhio lucido e la gamba tremante (per la ferita, oltre che per l’emozione).

Sarà questa la banchina che cambierà la mia vita?

Mi giro intorno, fantasticando su chi o cosa sarà l’incontro importante annunciatomi nel sogno premonitore. Una donna bellissima? Un santone? Un produttore di cartoni animati coreano? Elvis Presley? Ettore Maiorana? Snowden? Un mio compagno delle elementari? Un codice miniato del ‘300? L’ultimo indizio per trovare il Santo Graal? Le prove dell’esistenza di Atlantide, conservate in una vecchia valigia di cuoio logoro? Mi confesseranno un segreto? Mi uccideranno?
Ricordo quando più di dieci anni fa incontrai per caso in una lurida bettola di Estelì, piccola cittadina a nord del Nicaragua, un amico di mia sorella. Tutti e due rimanemmo a lungo a guardarci, con un enorme IMPOSSIBILE stampato in fronte. Cosa mi riserverà il destino adesso? Come cambierà la mia vita? 
Niente. Il binario è deserto, i pochi passeggeri si dirigono frettolosamente verso l’uscita. Vabbè, mi dico, mica siamo in un blockbuster, mica deve tutto succedere per forza nei primi due minuti. Diamo tempo all’universo. In fondo è qualcosa che trasformerà per sempre la mia vita, no? 
Cammino lentamente, sempre più emozionato, girandomi intorno per non lasciarmi sfuggire nessun movimento, per piccolo che sia. Scruto le facce, le mattonelle, gli interstizi nelle colonne d’acciaio, i cartelloni pubblicitari nel caso il messaggio fosse nascosto lì.

Sai dirmi tu, amico arancione, chi devo incontrare?

Niente. Arrivo all'enorme sala centrale, una gran folla di gente esce ed entra. Cerco qualcuno con la faccia blu, con l’aureola, con un paio di tette stratosferiche, ma non noto niente di straordinario. Guardo in alto, forse il fascio di luce o la zampaccia di Godzilla calerà dal tetto.
Niente. Prendo uno zuppone con la menta, faccio un giro per la sala d’attesa, fingo di aggiornare il diario, chiedo alla ragazza delle informazioni se c’è il rischio di golpe militare, così tanto per prendere tempo e dare possibilità all’universo di mostrarmi ciò che deve mostrarmi. Passa un’altra mezz’ora.
Niente. La ferita mi fa un male boia, devo cambiare il bendaggio se non voglio sanguinare sulle scarpe dei passeggeri. Aspetto altri dieci minuti.
Niente. Non mi do per vinto. Invece di andare verso il quartiere Kao San prendo una pensione accanto alla stazione centrale, orribile e squallida come tutte le pensioni accanto alle stazioni centrali. Nel pomeriggio ritornerò tra i binari, e il giorno dopo di nuovo.

La mia pensione. Sembra decente, ma di notte è un'altra cosa

Niente. Tocco il fondo della delusione. Domani parto, questo doveva essere il coronamento di tutto il mio appassionante viaggio in Asia e invece niente. Niente, nemmeno un biglietto della lotteria scaduto o una francese ubriaca che passa di là per caso.
Com’è che dicevano? Bisogna seguire sempre i propri sogni? Controllate che i vostri sogni abbiano il bollino bianco, altrimenti rimandateli al mittente con un reclamo formale e fottetevene.

martedì 13 gennaio 2015

Hat Yai, Thailandia. Percezioni extrasensoriali e colpi di stato

Il viaggio in treno dura due lunghi e dimenticabilissimi giorni in cui l’unica nota di colore rimane la tappa nella città di Hat Yai. Esco dalla stazione per cambiare gli ultimi dollari in bath tailandesi. Per strada c’è qualcosa che non quadra, lo percepisco subito. Qualcosa che colgo con la coda dell’occhio e del cervello, senza capire bene cos’è.
Mi indicano un’agenzia turistica, entro. Chiedo a quanto va il bhat a una delle signorine presenti dietro il lungo bancone. La sensazione si fa più forte. Mi guardo intorno: arredamento normale, luce normale, rumori normali. Fuori dei furgoncini e i soliti venditori di cibo. Normali. Cos’è allora che mi arriva sottotraccia? Mi danno i soldi, tutto a posto. Li prendo, ringrazio. Tutto normale. La signorina mi sorride. Mi fermo. La guardo. Capisco che è lei. Non è una signorina. Nemmeno le altre sono signorine. Esco dall’agenzia e osservo attentamente le passanti. Neanche loro sono signorine. Allora tutti quei luoghi comuni sulla Tailandia come patria transex hanno un fondo di verità.

I soliti, meravigliosi venditori di cibo
Attenzione alla prova microfono

Mentre mi riposo in un cyber la televisione trasmette immagini di poliziotti che caricano manifestanti. Migliaia di manifestanti. Non capisco bene cosa succede, è un canale locale in lingua thai. Guardo lo schermo distrattamente, mentre controllo le mail. Il tipo al bancone invece segue le notizie con grande apprensione. Commenta con il vicino, preoccupato. Quando finisco mi avvicino al bancone per pagare, i due hanno gli occhi incollati al televisore, mi incuriosisco. Le immagini adesso hanno qualcosa di familiare, ma cosa? I manifestanti hanno qualcosa di familiare, ma cosa?
Minchia. No, impossibile. È stato più di due mesi fa, dico tra me e me: quanto durano qui in Asia le manifestazioni politiche? Non è come da noi, un bel girotondo e tutti a casa? E invece i tipi me lo confermano: si prevede un golpe, forse l’aeroporto di Bangkok verrà chiuso oggi stesso. Ma porcaputtana, non potevano aspettare che io fossi partito? Per un attimo penso di tornare a Kuala Lumpur e da lì prendere l’aereo per l’Europa, ma due cose mi spingono a continuare. Il sogno premonitore, prima di tutto. E poi la curiosità: quando mi ricapiterà di trovarmi in mezzo a un colpo di stato?

Per favore, non caricate!

lunedì 12 gennaio 2015

Allah è grande, ma le mie occhiaie di più

Kuala Lumpur, Malesia. Dopo essermi scofanato il piatto più buono mai assaggiato in vita mia (perdonami, mamma) aspetto delle lunghe ore nell'affollata e modernissima Sentral Station. La coscia ancora sanguinante, distrutto dalla stanchezza, l'antibiotico che mi obnubila, buttato a terra come un barbone mentre i passi e le voci di milioni di persone rimbombano nelle mie orecchie.

Il sapore di quei noodles mi resterà in bocca per sempre
Quattro piani di negozi, Roma Termini in confronto è un cortile

Verso le nove arriva il treno notturno per la Tailandia. Entro. Cuccetta, aria condizionata, un piccolo lusso concesso alla mia ferita di guerra. Dormirò, almeno oggi? Sono tre mesi che non dormo, tre. Ho le occhiaie più grandi del mio zaino: ormai la mia roba la metto lì, tra gli occhi e le guance.
Ma stanotte è la volta buona, lo sento. Faccio un giro di ricognizione. Non ci sono galli in vista. Nessuna uscita per casse e microfono, il rischio karaoke è scongiurato. L'unico bambino è dall'altra parte del vagone, lontanissimo. Se qualcuno russa verrà tranquillamente sovrastato dal rumore del treno. Tutto a posto. Mi accomodo nella mia cuccetta, pregustando un lungo, meritato sonno. Mi addormento, cullato dall'ipnotico sferragliare delle ruote sui binari.
Povero illuso.

Il vagone prima che si spengano le luci

Verso le cinque, all'improvviso, una voce dall'altoparlante irrompe stentorea nel vagone. Salto dal letto. Non capisco un cazzo di quello che dice, ma vista l'ora penso a un'emergenza. Magari il treno va in fiamme o qualcosa del genere, dopo quello che mi è successo finora ci starebbe anche. Poi mi guardo intorno, nessuno si muove. I miei compagni di viaggio si rivoltano nelle lenzuola e si rimettono a dormire, mugugnando qualcosa, mentre la voce continua a tuonare, rimbalzando poderosa per tutto il convoglio.
Finalmente capisco. Siamo in territorio malese, dove l'Islam è la religione di stato. La voce è quella del muezzin che invita i fedeli alla preghiera mattutina. Lancio l’ennesima imprecazione, ringraziando Allah per l'ennesima alba in bianco.

venerdì 9 gennaio 2015

Malesia: bisogna sempre inseguire i sogni, ma in cuccetta


Quando ero in Nepal ho fatto un sogno: ero nella stazione ferroviaria di Bangkok e una voce mi diceva che lì avrei fatto un incontro importante. Ricordo che mi svegliai scosso, era il primo sogno del genere che facevo e mi parve insolitamente vivido.  
Decido quindi di tornare a Bangkok in treno. Mettendoci tre giorni per un viaggio di tre ore. Mi spiego: da Cebu potrei prendere un volo diretto per la Thailandia e via. Invece atterro di notte a Manila, all’alba mi infilo in un aereo per Kuala Lumpur in Malesia, da qui aspetto tutta la giornata fino a salire su un treno che in due giorni mi porterà a Bangkok. Il tutto con i punti freschi sulla ferita e una stanchezza abissale, strizzato tra ciccioni che manca poco e mi si siedono sulle ginocchia. E pensare che il dottore mi ha ordinato assoluto riposo.
In nessun momento penso che potrei prendere l’aereo per Bangkok, tre ore di volo, e dopo andare tranquillamente in stazione. Troppo facile. E poi la vita mi piace così, con lo scambio sui binari che scatta all'ultimo momento, rivelando nuove destinazioni. O la stessa, ma diversa perchè diverso è il modo di arrivarci. 
Detta in termini meno romantici: sono un idiota.
 
Ogni binario, un viaggio