martedì 21 ottobre 2014

Namche Bazaar - Kungh Jung: merda di yak e caciocavalli

I miei compagni di trekking sono dei caciocavalli: dopo sei ore di trekking sono a pezzi, li lascio nella tea house di Namche Bazaar a riprendere il fiato. Pfui. I giovani. Meno male che facciamo un giorno di acclimatazione, se no questi mi muoiono per strada.
Vado su e lascio alle mie spalle i rumori di uomini e bestie, che la nebbia inghiotte in un attimo insieme alle bandierine tibetane e alle rocce dalle gigantesche iscrizioni in lingua sherpa. Vado da solo, senza meta, perdendomi in mezzo al nulla ovattato. Rigorosamente in pantaloncini. Al ritorno incontro una scalinata intagliata nella pietra, la seguo. All’improvviso la nebbia si apre, è il tramonto, un monte solitario e appuntito come una lama si erge in mezzo al cielo, immenso sopra di me, a un’altezza che mai avrei potuto immaginare, con la parete ghiacciata colorata di rosa ormai pallido. Mi commuovo.

(foto di Silvia Carrozzo)

A Kungh Jung incontro un giovane locale con una grossa cesta sulle spalle, appena mi vede mi sorride e mi stringe vigorosamente la mano. Simpatico, il tipo. Non parla inglese, la nostra conversazione dura tre secondi. Namaste. Namaste. Mentre vado via mi giro. Mai farlo, mai voltarsi indietro: ricordate cosa è successo a Orfeo? Lo vedo estrarre dalla cesta delle enormi polpettone di merda di yak e spalmarle con cura sulla roccia (per seccarle: è il combustibile locale), con la stessa mano con cui ha stretto la mia. Poi dicono che l'antitifo non serve.

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