martedì 20 gennaio 2015

Ritorno a casa.

La mia camera di decompressione è Londra. Ci torno dopo averci vissuto più di 15 anni fa, con l’occasione visito le mie meravigliose sorelle. Per le strade e nei pub mi arriva addosso uno tsunami di ricordi ed emozioni, ma non è questo il posto adatto per parlare, non sono cronache asiatiche.

Camere di decompressione rosse

Dopo una settimana sono a Barcellona. La Sagrada Famiglia ha un pezzo in più, il parco sotto casa mia è stato completato, una strada ha cambiato senso di marcia. Entro nel mio appartamento dopo tre mesi e mezzo: è bello avere un posto dove stare, invece di un bus che ti sballotta tutta la notte con il tubo di scappamento in faccia. I giorni della settimana hanno di nuovo un nome. Con loro torna anche l’insostenibile leggerezza della quotidianità. Un esempio. In Asia mangiare era: scegliere tra un baracchino e quello accanto. Qui è: pensare cosa mangiare, fare la spesa, cucinare, lavare i piatti, buttare la spazzatura.
Ma la cosa che mi colpisce di più è la perduta semplicità delle cose. Durante gli ultimi mesi tra A e B c’era un unico, lineare percorso da fare. Qui c’è una matassa di percorsi possibili: molti farraginosi, molti collegati tra loro o peggio troppo simili tra di loro. È questa, la semplicità delle cose, l’insegnamento che mi porto dietro nel mio bagaglio a mano? Ma soprattutto: chi ha detto che dovevo tornare con qualche insegnamento? Ho gli occhi pieni di bellezza, lo stomaco pieno di sticky rice, il sangue pieno di adrenalina e antitetanica. E un quaderno pieno di racconti: non vi sembra abbastanza? O credevate che sarei tornato illuminato e pieno di rivelazioni?
Sì, anch'io lo credevo. Ma non è colpa mia se non ho avuto la svolta che l’Universo mi ha promesso in sogno, probabilmente a causa di un banale ritardo di treni.
In compenso, adesso so che il mio scopo in questa vita è sterminare i galli.

!Hasta al pròximo viaje!

venerdì 16 gennaio 2015

Back to Europe

Non chiamatemi schizzinoso. Ho mangiato carne di yak andata a male, vermi fritti, grilli, intestini di animali sconosciuti, però il menù della British Airways nun se pò magnà. Come fa uno a passare nel giro di poche ore dalle profumate zuppe di granchio e galangale alla verdura di plastica cementata con il cottage cheese? Mi serviranno diversi giorni per riabituarmi.

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giovedì 15 gennaio 2015

La moda italiana sfida la piazza e i carrarmati

Sono a Bangkok, rispetto a due mesi fa la protesta è montata fino a paralizzare tutto il centro della città. Si parla di blocco totale, addirittura di intervento militare. Ma io ho intenzione di ingozzarmi di pad thai e di tutto ciò che mi capiterà davanti: è il mio ultimo giorno in Asia e devo fare provviste per tutto l'anno. Sono qui per mangiare e niente mi fermerà, nemmeno i carri armati.
Così vado in giro per la città, attraversando impassibilmente con uno spiedino in mano milioni di manifestanti, che stranamente mi guardano tutti male. Forse non mostro sufficiente entusiasmo per la loro causa, ma non so come esprimere loro solidarietà se non addentando più forte la mia anatra al sesamo. Sostengo la lotta dando tutto il mio denaro al popolo, a cambio di qualche simbolico chilo di cibo.

Me li dia tutti, signora, non si sa mai nella vita...
...e anche un pad thai che è da novembre che non lo mangio...
...e anche una dozzina di piatti di questi a caso...
...per chiudere con mango e ananas freschi!

A un certo punto una signora mi avvicina, indica la mia camicia, fa un gesto di disgusto, prontamente condiviso dalla folla. Mi viene voglia di replicare che la moda thailandese non brilla certo per buon gusto, e il suo vestitino leopardato sta a dimostrarlo, ma io sono solo e loro milioni. Decido di rimandare l'apologia dell'Italian Fashion a un'altra volta. La signora insiste, schifata dal mio vestire. Non capisco, non parla inglese. Fa il segno di spararmi, sdegnata. E che cazzo, adesso si esagera, inizio a innervosirmi.
Poi un tipo si mette in mezzo, evitando la rissa, e mi spiega: il rosso è il colore del partito al governo, contestato e odiato da tutti. Mi giro e guardo intorno: milioni di persone e nemmeno un puntino di rosso. Indovinate di che colore sono la mia camicia, la mia bandana e la busta che ho in mano? 

mercoledì 14 gennaio 2015

Hua Lamphong Station. Penso che un sogno così non ritorni mai più…

È con grande trepidazione che sento il mio treno entrare nella stazione centrale di Bangkok, Hua Lamphong. Rallenta, sbuffa, si ferma. Scendo sul binario con l’occhio lucido e la gamba tremante (per la ferita, oltre che per l’emozione).

Sarà questa la banchina che cambierà la mia vita?

Mi giro intorno, fantasticando su chi o cosa sarà l’incontro importante annunciatomi nel sogno premonitore. Una donna bellissima? Un santone? Un produttore di cartoni animati coreano? Elvis Presley? Ettore Maiorana? Snowden? Un mio compagno delle elementari? Un codice miniato del ‘300? L’ultimo indizio per trovare il Santo Graal? Le prove dell’esistenza di Atlantide, conservate in una vecchia valigia di cuoio logoro? Mi confesseranno un segreto? Mi uccideranno?
Ricordo quando più di dieci anni fa incontrai per caso in una lurida bettola di Estelì, piccola cittadina a nord del Nicaragua, un amico di mia sorella. Tutti e due rimanemmo a lungo a guardarci, con un enorme IMPOSSIBILE stampato in fronte. Cosa mi riserverà il destino adesso? Come cambierà la mia vita? 
Niente. Il binario è deserto, i pochi passeggeri si dirigono frettolosamente verso l’uscita. Vabbè, mi dico, mica siamo in un blockbuster, mica deve tutto succedere per forza nei primi due minuti. Diamo tempo all’universo. In fondo è qualcosa che trasformerà per sempre la mia vita, no? 
Cammino lentamente, sempre più emozionato, girandomi intorno per non lasciarmi sfuggire nessun movimento, per piccolo che sia. Scruto le facce, le mattonelle, gli interstizi nelle colonne d’acciaio, i cartelloni pubblicitari nel caso il messaggio fosse nascosto lì.

Sai dirmi tu, amico arancione, chi devo incontrare?

Niente. Arrivo all'enorme sala centrale, una gran folla di gente esce ed entra. Cerco qualcuno con la faccia blu, con l’aureola, con un paio di tette stratosferiche, ma non noto niente di straordinario. Guardo in alto, forse il fascio di luce o la zampaccia di Godzilla calerà dal tetto.
Niente. Prendo uno zuppone con la menta, faccio un giro per la sala d’attesa, fingo di aggiornare il diario, chiedo alla ragazza delle informazioni se c’è il rischio di golpe militare, così tanto per prendere tempo e dare possibilità all’universo di mostrarmi ciò che deve mostrarmi. Passa un’altra mezz’ora.
Niente. La ferita mi fa un male boia, devo cambiare il bendaggio se non voglio sanguinare sulle scarpe dei passeggeri. Aspetto altri dieci minuti.
Niente. Non mi do per vinto. Invece di andare verso il quartiere Kao San prendo una pensione accanto alla stazione centrale, orribile e squallida come tutte le pensioni accanto alle stazioni centrali. Nel pomeriggio ritornerò tra i binari, e il giorno dopo di nuovo.

La mia pensione. Sembra decente, ma di notte è un'altra cosa

Niente. Tocco il fondo della delusione. Domani parto, questo doveva essere il coronamento di tutto il mio appassionante viaggio in Asia e invece niente. Niente, nemmeno un biglietto della lotteria scaduto o una francese ubriaca che passa di là per caso.
Com’è che dicevano? Bisogna seguire sempre i propri sogni? Controllate che i vostri sogni abbiano il bollino bianco, altrimenti rimandateli al mittente con un reclamo formale e fottetevene.

martedì 13 gennaio 2015

Hat Yai, Thailandia. Percezioni extrasensoriali e colpi di stato

Il viaggio in treno dura due lunghi e dimenticabilissimi giorni in cui l’unica nota di colore rimane la tappa nella città di Hat Yai. Esco dalla stazione per cambiare gli ultimi dollari in bath tailandesi. Per strada c’è qualcosa che non quadra, lo percepisco subito. Qualcosa che colgo con la coda dell’occhio e del cervello, senza capire bene cos’è.
Mi indicano un’agenzia turistica, entro. Chiedo a quanto va il bhat a una delle signorine presenti dietro il lungo bancone. La sensazione si fa più forte. Mi guardo intorno: arredamento normale, luce normale, rumori normali. Fuori dei furgoncini e i soliti venditori di cibo. Normali. Cos’è allora che mi arriva sottotraccia? Mi danno i soldi, tutto a posto. Li prendo, ringrazio. Tutto normale. La signorina mi sorride. Mi fermo. La guardo. Capisco che è lei. Non è una signorina. Nemmeno le altre sono signorine. Esco dall’agenzia e osservo attentamente le passanti. Neanche loro sono signorine. Allora tutti quei luoghi comuni sulla Tailandia come patria transex hanno un fondo di verità.

I soliti, meravigliosi venditori di cibo
Attenzione alla prova microfono

Mentre mi riposo in un cyber la televisione trasmette immagini di poliziotti che caricano manifestanti. Migliaia di manifestanti. Non capisco bene cosa succede, è un canale locale in lingua thai. Guardo lo schermo distrattamente, mentre controllo le mail. Il tipo al bancone invece segue le notizie con grande apprensione. Commenta con il vicino, preoccupato. Quando finisco mi avvicino al bancone per pagare, i due hanno gli occhi incollati al televisore, mi incuriosisco. Le immagini adesso hanno qualcosa di familiare, ma cosa? I manifestanti hanno qualcosa di familiare, ma cosa?
Minchia. No, impossibile. È stato più di due mesi fa, dico tra me e me: quanto durano qui in Asia le manifestazioni politiche? Non è come da noi, un bel girotondo e tutti a casa? E invece i tipi me lo confermano: si prevede un golpe, forse l’aeroporto di Bangkok verrà chiuso oggi stesso. Ma porcaputtana, non potevano aspettare che io fossi partito? Per un attimo penso di tornare a Kuala Lumpur e da lì prendere l’aereo per l’Europa, ma due cose mi spingono a continuare. Il sogno premonitore, prima di tutto. E poi la curiosità: quando mi ricapiterà di trovarmi in mezzo a un colpo di stato?

Per favore, non caricate!

lunedì 12 gennaio 2015

Allah è grande, ma le mie occhiaie di più

Kuala Lumpur, Malesia. Dopo essermi scofanato il piatto più buono mai assaggiato in vita mia (perdonami, mamma) aspetto delle lunghe ore nell'affollata e modernissima Sentral Station. La coscia ancora sanguinante, distrutto dalla stanchezza, l'antibiotico che mi obnubila, buttato a terra come un barbone mentre i passi e le voci di milioni di persone rimbombano nelle mie orecchie.

Il sapore di quei noodles mi resterà in bocca per sempre
Quattro piani di negozi, Roma Termini in confronto è un cortile

Verso le nove arriva il treno notturno per la Tailandia. Entro. Cuccetta, aria condizionata, un piccolo lusso concesso alla mia ferita di guerra. Dormirò, almeno oggi? Sono tre mesi che non dormo, tre. Ho le occhiaie più grandi del mio zaino: ormai la mia roba la metto lì, tra gli occhi e le guance.
Ma stanotte è la volta buona, lo sento. Faccio un giro di ricognizione. Non ci sono galli in vista. Nessuna uscita per casse e microfono, il rischio karaoke è scongiurato. L'unico bambino è dall'altra parte del vagone, lontanissimo. Se qualcuno russa verrà tranquillamente sovrastato dal rumore del treno. Tutto a posto. Mi accomodo nella mia cuccetta, pregustando un lungo, meritato sonno. Mi addormento, cullato dall'ipnotico sferragliare delle ruote sui binari.
Povero illuso.

Il vagone prima che si spengano le luci

Verso le cinque, all'improvviso, una voce dall'altoparlante irrompe stentorea nel vagone. Salto dal letto. Non capisco un cazzo di quello che dice, ma vista l'ora penso a un'emergenza. Magari il treno va in fiamme o qualcosa del genere, dopo quello che mi è successo finora ci starebbe anche. Poi mi guardo intorno, nessuno si muove. I miei compagni di viaggio si rivoltano nelle lenzuola e si rimettono a dormire, mugugnando qualcosa, mentre la voce continua a tuonare, rimbalzando poderosa per tutto il convoglio.
Finalmente capisco. Siamo in territorio malese, dove l'Islam è la religione di stato. La voce è quella del muezzin che invita i fedeli alla preghiera mattutina. Lancio l’ennesima imprecazione, ringraziando Allah per l'ennesima alba in bianco.

venerdì 9 gennaio 2015

Malesia: bisogna sempre inseguire i sogni, ma in cuccetta


Quando ero in Nepal ho fatto un sogno: ero nella stazione ferroviaria di Bangkok e una voce mi diceva che lì avrei fatto un incontro importante. Ricordo che mi svegliai scosso, era il primo sogno del genere che facevo e mi parve insolitamente vivido.  
Decido quindi di tornare a Bangkok in treno. Mettendoci tre giorni per un viaggio di tre ore. Mi spiego: da Cebu potrei prendere un volo diretto per la Thailandia e via. Invece atterro di notte a Manila, all’alba mi infilo in un aereo per Kuala Lumpur in Malesia, da qui aspetto tutta la giornata fino a salire su un treno che in due giorni mi porterà a Bangkok. Il tutto con i punti freschi sulla ferita e una stanchezza abissale, strizzato tra ciccioni che manca poco e mi si siedono sulle ginocchia. E pensare che il dottore mi ha ordinato assoluto riposo.
In nessun momento penso che potrei prendere l’aereo per Bangkok, tre ore di volo, e dopo andare tranquillamente in stazione. Troppo facile. E poi la vita mi piace così, con lo scambio sui binari che scatta all'ultimo momento, rivelando nuove destinazioni. O la stessa, ma diversa perchè diverso è il modo di arrivarci. 
Detta in termini meno romantici: sono un idiota.
 
Ogni binario, un viaggio


mercoledì 7 gennaio 2015

Undici punti e non è una goleada

Il cielo è di un azzurro Tiziano, il mare un cristallo. L'ospedale può aspettare, il giro in barca continua. Ci dirigiamo verso un'isola da depliant, dove consumiamo un pranzo ancora più da depliant. Scopro che il pesce-unicorno è il mio preferito, insieme a delle alghe pallinoformi. L'isola appartiene a un tipo che l'ha comprata per un milione di euro, qui si può fare. È un paradiso. Mentre gli altri snorkelizzano mi butto su un'amaca, pensando al futuro della mia gamba. Ho il terrore dei punti, chiederò delle graffette. Sempre che ce l'abbiano. Sempre che ci sia un ospedale sull'isola.
Torniamo. L'ospedale esiste ma è grande come il garage di mia nonna.

Qui mi hanno cucito come una tovaglia strappata

Ci sono dei poliziotti, uno è armato. Chiedo al mio accompagnatore che succede. Lite in famiglia, la solita moglie picchiata dal marito che verifica i danni prima di denunciarlo alla polizia. Ah. Mentre davanti a me si consuma un melodramma degno di Spaccanapoli, arriva il dottore. Lo guardo e lo capisco subito: l'unico stronzo tra cento milioni di simpaticissimi suoi compatrioti. Gli chiedo le graffette, mi suggerisce  fermamente i punti, autoassorbenti. Graffette. Punti. Graffette. Punti. Staples, ripeto con voce ferma. Il dottore sono io, ribatte con il bisturi in mano. Ma la gamba è mia, insisto. Colpisce: con le graffette tra una settimana dovrei tornare in ospedale a togliermele. Touchè. Diosolosa dove sarò tra una settimana, domani ho un volo da prendere.

Il mio dottor Mengele è il secondo da sinistra (foto di repertorio)

Undici punti. Il dottore ha fretta, non aspetta che l'anestesia faccia effetto. I primi nove punti me li infligge sulla carne viva, mentre dalla porta fanno capolino le teste di curiosi di passaggio che assistono compunti allo spettacolo sanguinolento. Evidentemente la donna picchiata è andata via e non sanno più che fare. La privacy è un concetto relativo, in questo paese dominato dal gossip.
Per l'occasione faccio l'uomo. Ovvero ululo dal dolore, senza ritegno. Il dottore mi rimbrotta, non capisce tanta agitazione. Mi dice di pensare a qualcosa di bello. Gli rispondo che non è facile, quando uno ti sta cucendo la coscia. Bofonchia qualcosa con sufficienza, coperto dalla mie urla. Gli chiedo se ci gode. "Do you enjoy sewing me?". "Of course. This is my job", risponde impassibile. Apprezzo la sua sincerità. Gli dico che se vuole può darmi un altro paio di punti: uno in più uno in meno che differenza vuoi che faccia? 
Eccomi con uno splendido souvenir delle Filippine: meno male, non avevo ancora trovato una T-shirt degna di essere comprata.

Tanto le donne amano le cicatrici

È curioso realizzare il classico sogno da bambino senza avere mai saputo di averlo. Ma oggi, mio ultimo giorno di mare nelle Filippine, scopro che il mio sogno segreto era quello di curiosare dentro una nave sommersa. Si tratta del Lusong wreck, nave da guerra giapponese affondata nei pressi dell'isola di Culion verso la fine della seconda guerra mondiale.

Il Lusong wreck, adagiato di fianco sul fondo marino

Ci arriviamo con l'alta marea, il relitto è completamente sommerso a una decina metri di profondità, piegato su una fiancata. Solo io e un marinaio filippino riusciamo ad arrivare sul ponte della nave, siamo senza pinne. Ma io voglio di più: emergo, iperventilo, mi gonfio di orgoglio e ossigeno, scendo. Uno, due, tre, cinque, otto metri: mi muovo lentamente tra le paratie ossidate della nave ormai ricoperte da coralli, seguito dallo sguardo di centinaia di pesci che hanno fatto lì la loro casa. Il ponte, la camera stagna, i monconi della sala macchine: li percorro in silenzio, per pochi lunghi secondi, un sacco di volte. È affascinante scoprire gli anfratti segreti di una nave fantasma. 

 
 
 
 
 

Dalla barca mi chiamano, decido di fare un'ultima immersione. Sto già risalendo quando di colpo sento un dolore lancinante alla coscia destra. Mi giro di scatto e vedo una profondo squarcio che l'ha aperta in due. Ho urtato uno di quei coralli taglienti come lame, o il bordo della nave, non lo so. So solo che un lembo della mia carne sventola nell'acqua come un lenzuolo, seguito da una scia di sangue. La prima cosa che penso è che grazie al cielo ho da poco fatto l'antitetanica. La seconda cosa è che gli uomini con le cicatrici sono sempre piaciuti. E su questa ferita avrò una storia interessante da raccontare, mica stavo affettando le melanzane. 
Raggiungo rapido la mia barca, ovviamente non hanno un kit di pronto soccorso. Un marinaio si toglie la maglietta, la strappa e me ne dà una striscia. Me la lego stretta intorno alla gamba, mentre sorrido a tutti facendo battute rassicuranti. Ovviamente sono pallido come un cencio e mi viene da vomitare. Per fortuna la ragazza filippina accanto a me una è infermiera e la famiglia svedese ha tintura di iodio e cerotti (che vuol dire viaggiare con bambini!). Il piccolo svedese osserva curioso come fermo l'emorragia, senza mostrare alcuna emozione: da grande diventerà chirurgo, o serial killer.

martedì 6 gennaio 2015

La furia di Yolanda

Arriviamo a Coron Island quasi a mezzanotte. Ci aspettano con un pugno di riso, una bottiglietta d’acqua e un volto mortificato di scuse. È buio. Ci muoviamo come fantasmi lunghi i moli silenziosi, quindi ci incamminiamo lungo una strada altrettanto deserta verso il centro dell’isola. Tutto intorno il degrado e l’abbandono: case semidiroccate, pali della luce che pendono come torri di Pisa, detriti lungo le cunette, lampioni che non funzionano. E che cazzo – è il mio primo pensiero - pare che ci sia passato un tifone.

Sì, qualche ramo è rimasto a terra...
...ma Coron City ha ripreso a vivere

Proprio così.
Pochi giorni fa Yolanda ha spazzato via mezza isola, come mi spiega il giorno dopo Marvin, il ragazzo che lavora nella guesthouse. Sulla quale si è abbattuto un albero di varie tonnellate ancora visibile contro il muro posteriore. Loro si sono rimboccati le maniche, hanno motosegato l’albero, ricostruito la parete e ne hanno approfittato per dare un colpo di bianco al tutto. Tanto di tifoni qui ne passano un paio all’anno, mi dice, e anche peggiori di Yolanda: siamo sempre sopravvissuti. E i morti? faccio io. Se la sono voluta, mi spiega. L’isola è stata avvisata circa una settimana prima dell’arrivo del tifone: se proprio quella mattina vai a pesca, o rimani nella tua capannetta fatta di paglia alla mercè del soffio del lupo cattivo, beh, te la sei voluta. Fatalismo e pragmatismo in dosi uguali, mi piace.

Interno della colorata Marley Guesthouse...
...esterno (è quella arancione sullo sfondo)...
...e la terrazza da cui godersi il traffico cittadino

Per capire come sono i filippini.
Sera, buio, non mi funziona la SIM locale. Chiedo a tre ragazzini per strada se hanno l’operatore X, con quello posso chiamare gratis. Un ragazzino di 16 anni mi dà direttamente il suo cellulare. Telefono. La chiacchiera dura molto, quasi un’ora. A un certo punto vedo che il ragazzino si allontana. Sta tornando a casa.
- Scusa, non ho fatto caso al tempo che è passato, mi giustifico.
- Non fa niente.
- Ecco il telefono.
- Non fa niente, me lo restituisci domano.
- Domani? È la prima volta che ci vediamo, anzi non ci vediamo proprio perché è tutto buio, non conosci nemmeno il mio nome, sono un turista e mi lasci il tuo telefono? Non saprei nemmeno come beccarti, sono appena arrivato sull’isola.
- Buona continuazione, ciao!

lunedì 5 gennaio 2015

Naufragio!

La barca che da El Nido ci porterà a Coron Town parte con un'ora di ritardo. Iniziamo bene. Il molo è di un paio di metri più alto della barca, per cui saltiamo sul tetto della stessa, scavalcando il parapetto di legno a mo’ di pirati all'arrembaggio e ci caliamo da una botola. E vabbè. Almeno siamo partiti.
Dopo una mezz'ora ci fermiamo, problema meccanico, devono cambiare una cinghia del motore. Cosa vuoi che sia.
Dopo un'altra ora un altro stop, stavolta il motore riprende a funzionare annaspando rumorosamente. Ma non ci allarmiamo: è una nave di linea, eh!, mica un bangka di bambù legato insieme con il filo da pesca. 
La terza volta rimaniamo fermi per almeno un'ora, nessuno capisce bene il perchè. Un pescatore di un'isola vicina ha il tempo di venirci a trovare, mentre un passeggero si butta in acqua con il figlioletto. Io salgo sul tetto ad ammirare il panorama mozzafiato di isole sparse nel mare smeraldo, gli altri 15 passeggeri si mettono comodi. Perchè stressarci? Siamo nelle Filippine, un piccolo imprevisto ci sta. Si riparte.


Sono le quattro quando, sempre seduto in beata solitudine sul tetto, sento il motore fermarsi di colpo. Un marinaio sale furiosamente, si toglie la maglietta bianca e inizia ad agitarla verso poppa. Non capisco. Si arrende all'ineluttabilità del destino? Al dio Poseidon o comunque si chiami qui? Poi aguzzo la vista e vedo un'imbarcazione lontana: il marinaio sta cercando di attirarne l’attenzione. Ovviamente quella scivola lentamente verso l'orizzonte, ignara del nostro dramma. Già, perchè intuisco dall'espressione del marinaio che le cose si mettono male. Domando che succede. Siamo rimasti senza olio, dice. Non ci credo. Sto per chiedergli dov'è il distributore più vicino, ma un altro marinaio mi sfreccia davanti e corre come un pazzo a liberare l'ancora (tenuta sul tetto per ragioni estetiche, suppongo). Mi giro: la corrente ci sta rapidamente trascinando verso le rocce di un'isola dietro di noi. Altri trenta metri e ci saremmo schiantati.


Siamo fermi il mezzo al nulla. Una certa preoccupazione inizia a serpeggiare. Non c'è campo, i cellulari sono muti, e questi disgraziati non hanno nemmeno una radio per comunicare. Scrutiamo l'orizzonte, ma non passa più nessuna nave.
Passano le ore. Inizia a fare scuro. Il mare inizia ad agitarsi. Noi pure. Non abbiamo più acqua né cibo. Gli sguardi di tutti convergono nervosamente verso un russo in carne: con quella pancia sarà un'ottima cena, e ne avanzerà anche per la colazione di domani. Il russo si mette in un angolo, secondo me ha capito. Poi il miracolo. Il cellulare di un passeggero risuscita, chiamiamo aiuto.
Dopo un'altra ora arriva un minuscolo bangka con trenta latte d'olio, cinque bottiglie di Coca-Cola e alcune confezioni di crackers. I nostri volti si distendono in grandi sorrisi. Il russo tira un sospiro di sollievo. Si riparte. Con un piccolo dettaglio: la barca non è equipaggiata per viaggiare di notte, visto che in teoria doveva arrivare nel primo pomeriggio. Non ha luci.
Si procede per cinque lunghissime ore nel buio più assoluto, schivando scogli e isolette, mentre i cattolicissimi marinai pregano SS Maria dei Naufragati di farci arrivare interi. Io, sdraiato sul tetto, mi godo un cielo stellato come poche volte ho visto in vita mia.

domenica 4 gennaio 2015

Le lagune segrete di El Nido

I due giorni a Camiguin sono passati in fretta. Rosalie mi accompagna a prendere il volo. L’addio dura troppo e mi ritrovo a correre sulla pista dell’aeroporto, sbracciandomi come un dannato, mentre il portellone dell’aereo viene riaperto a motori già caldi. I soliti italiani.
Dopo alcune ore arrivo a El Nido, una delle destinazioni turistiche più popolari delle Filippine. Il perché lo capisco i due giorni successivi, quando salgo su una enorme bangka (l'imbarcazione locale con i due pinnoni laterali di bambù) e vedo il mare più bello della mia vita. Lagune segrete, scogliere a picco, spiagge immacolate, grotte da favola, tartarughe giganti che ti nuotano accanto. Ci sono dei posti in cui le descrizioni servono a poco e – ahimé – diventa vera quella puttanata secondo cui un’immagine vale mille parole.
E quindi mi fermo: qui sotto trovate la cronaca visuale dei miei giorni a El Nido.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Dei ragazzi mi dicono che El Nido fino a dieci anni fa era un paese di pescatori, con quattro baracche in riva alla spiaggia, le grandi bangka a riposare sul bagnasciuga. Adesso a ogni angolo delle tre strade stanno costruendo una guesthouse o un ristorante. Tra pochi anni il lungomare sarà invaso da turisti che sorseggiano daiquiri. I bar saranno pieni di russi grassi, depilati e chiassosi. I negozietti di souvenir prenderanno il posto dei carretti che vendono gelati artigianali (brioche col gelato! Buonissime!). Chiedo ai ragazzi se la cosa li intristisce o li fa indignare. Si guardano tra di loro, come se non avessero capito la domanda. Fino a dieci anni fa qua si moriva di fame, dicono, e per trovare un lavoro dovevamo emigrare.
Discorso chiuso: le nostalgie da occidentale equo e solidale me le tengo per me, e mi consolo con una gigantesca brioche col gelato.

sabato 3 gennaio 2015

Dentro il vulcano Hibok-Hibok

Oggi Rosalie ha promesso di portarci sul vulcano Hibok-Hibok. Turo-Turo, halo-halo, tayo-tayo, sama-sama: nelle Filippine piacciono i nomi ripetuti, deve essere una eredità dei pappagalli tropicali nei primi giorni in cui nacque mondo.
Si inizia all'alba. È una soleggiata giornata di gennaio, con noi ci sono i tre francesi incestuosi più altri due pellebianca. Mi apro il passo a fatica nella giungla, mentre lei racconta esilaranti aneddoti dell’isola. Fa caldo e umido. Respiro affannosamente, mentre scivolo nel fango. I miei sandali sono al limite, della decenza e della rottura, decido di togliermeli. Calpestare insetti e larve non è un gran problema. Dare un calcio a una pianta grassa invece sì, e il bestemmione scuote l’isola più dell’ultima eruzione. Sanguino. La salita sembra non finire mai e in più non si vede nemmeno il panorama, circondati come siamo dalle liane e dagli alberi.

Posso dire di avere lasciato un'impronta a Camiguin

Dopo due ore inizio a sudare nervosismo. L’umidità è disperante. Arriva anche una leggera nebbiolina. Finché non sbotto: “quanto ci vuole per arrivare a ‘sto cazzo di cratere?”. Rosalie mi sorride: “ci siamo già”. Mi guardo intorno. Non avevo fatto caso alla leggera discesa. Alzo lo sguardo: tutto intorno ci circondano le pareti del cratere, completamente ricoperte di vegetazione. Siamo dentro il cratere. Scende il silenzio. È un luogo magico.

Il cratere visto da dentro, non te ne accorgi neanche...
...mentre dall'alto si può immaginare la lava dei giorni antichi

Le piante si fanno più basse, il cielo si apre sopra di noi tra la nebbiolina. Al centro del cratere un piccolo laghetto. Mi ci immergo, immaginando che dalle acque esca la Dama Bianca a consegnarmi Excalibur o qualcosa del genere. Un tuono scuote il laghetto. Non può essere che lei, sta arrivando. Chiudo gli occhi per rispetto verso la Dama Bianca. Non può essere guardata da occhi umani.
Di nuovo il tuono. Lei dev’essere già davanti a me.
Aspetto.
Un altro tuono. 
E improvvisamente si scatena il diluvio.
Corro come un forsennato verso il bordo del cratere, scivolando nel fango e urlando cose poco carine alla Dama di cui sopra. Iniziamo una penosa discesa che presto si trasforma in un doloroso toboga. Rosalie, lei solo sa perché, ride e canta e alza la faccia verso la pioggia ringraziando le divinità femminili. Io e i francesi tiriamo giù i nostri santi, maschi e femmine. Il mio poncho Goretex, esperto di ghiacciai perenni, cede sotto il peso prepotente della pioggia tropicale. Dopo mezz’ora siamo tutti senza maglietta, pieni di fango fino ai capelli, e la cosa sarebbe anche divertente o erotica se non fosse che ogni tanto uno di noi dà una culata e rischia la spina dorsale.  
Quando finalmente arriviamo sulla strada la pioggia ci ha già completamente lavati. 
Per riposarsi dalle fatiche ci spostiamo in un altro luogo magico: una zona di piscine naturali di acque termali. Lasciamo che l'acqua calda lenisca graffi e stanchezza


Relax, finchè non scende la sera

venerdì 2 gennaio 2015

Enigmata Tree House

La sera incontriamo dei turisti. Ovviamente francesi. Sono tre: una giovane coppia e il fratello di lui. La cosa inquietante è che i due fidanzati sono una goccia d’acqua, mentre i due fratelli non si somigliano per niente. Chiedo loro se hanno pregiudizi sull’incesto. Non capiscono l’ironia. Quando mi spiegano le loro origini mi rendo conto che hanno comunque una genetica strana: cromosomi tunisini, russi e malgasci macinati finemente nel tritacarne francese. 
Sono molto in gamba, da un paio d’anni viaggiano in lungo e largo per l’Asia. Fanno un pesce alla brace da leccarsi i baffi. Comprano un paio di enormi parrot fish e ci invitano nella loro guesthouse, una meraviglia costruita da artisti filippini. Le pareti di bottiglie, il labirinto, le statue, il pavimento di legno contorto, le affascinanti stanze, il  legno e il bambù, le stoffe e le pelli: se passate da qui non vi perdete la misteriosa Enigmata Tree House.

 
 
 
 

Ma Rosalie mi colpisce di più delle statue e del labirinto. Tre minuti dopo averla conosciuta le chiedo se domani mi mostra l’isola, sono disposto a stracciare i due biglietti d’aereo che ho in tasca per rimanere a Camiguin. Ride. Non ci crede. Le rifaccio la domanda. Straccio i biglietti.