venerdì 31 ottobre 2014

È lui lo Yeti?

Giorno di riposo. Vado a camminare su un ghiacciaio, ma torno indietro troppo tardi: nel pomeriggio la neve è morbida, affondo fino ai fianchi, camminare è impossibile.
Lungo il sentiero uccellini rosa, aquile, una specie di cerbiatto, gli immancabili yak, inquietanti avvoltoi scuri. Ma, più inquietanti di tutti, lui: il tedesco dallo sguardo folle che trovo all’arrivo nella tea house. Viaggia da solo, non parla con nessuno, ogni tanto si guarda intorno e la temperatura scende di altri 20 gradi. Secondo me è ricercato dall'Interpol per omicidi multipli e si è rifugiato qui sopra con la scusa del trekking (ammesso che stia facendo un trekking: non dice nulla di sè, nemmeno il nome). Forse le ultime vittime della montagna sono sue. Forse lo Yeti è proprio lui. Appena cala il sole la nebbia emerge dalle acque del lago e avvolge misteriosamente Gokyo, dando un contorno di leggenda a tutto, anche a lui.
(foto di Lachlan Jones)

giovedì 30 ottobre 2014

Gokyo Ri

Gokyo Ri, 5350 metri. Montagna sul lago, accanto a un ghiacciaio perenne. Salgo da solo, i miei amici andranno domani: sono troppo stanchi, poveri ciccini infreddoliti. Sfido il vento gelido e arrivo in cima. Non c’è nessuno. Siamo solo io e le bandierine colorate che si agitano in mezzo al bianco abbagliante. Tutto intorno la catena dell'Himalaya, a 360 gradi. Sotto, i laghi sacri. Non ho mai visto un panorama così. Il cuore non regge tanta bellezza, piango.

(foto di Lachlan Jones)

mercoledì 29 ottobre 2014

Un genio (non impermeabile) a Tangnak

Sveglia alle quattro, la neve è meglio pestarla quando è dura. Affrontiamo il Cho La, il passo di montagna più alto che incontreremo, 5420 metri. Lasciamo la tea house al buio, i frontali accesi. Il panorama è spettacolare, la sconfinata distesa di neve è illuminata dalla luna e riflette mille barbagli bluastri. Procediamo in silenzio, mentre la nostra guida dall'espressione impenetrabile cerca a fatica il sentiero. Silenzio. Si sentono solo i nostri respiri pesanti e lo scricchiolio degli scarponi che rompono la neve ghiacciata. 

(foto di Lachlan Jones)

Passano le ore. Ci inerpichiamo sulla montagna.
Lanchlan non ce la fa più. Si trascina come può, la faccia stravolta, il respiro asfittico. Sul Cho La, con la neve – ormai molle – fino alle ginocchia, perdiamo anche Maya, distrutta dalla fatica e dal pessimismo cosmico. Io e Moi guidiamo indomiti il gruppo, insieme alla guida Santa (santa guida, in questo caso), aprendoci il cammino tra i ghiacci. Nella discesa mi accompagna il mantra “Sei Un Imbecille”, che mi ripeto religiosamente a ogni passo. I miei scarponi made in China infatti non sono impermeabili, nonostante quanto riportato sull’etichetta: più che calpestare la neve, la incamero attorno ai piedi e la sciolgo con il calore umano, portando la mia temperatura corporea a quella di un pesce abissale. Li ho comprati due giorni prima di iniziare il trekking, come prescrive la regola d’oro del perfetto escursionista idiota. Un genio.

martedì 28 ottobre 2014

Dzongla, Kala Patthar e la prima vittima del mal di montagna

Oltre i 5000 metri c'è circa la metà di ossigeno rispetto a quello cui siamo abituati, il corpo non funziona più tanto bene. Il primo a perdere colpi è Lachlan, l'australiano, colpito dai primi sintomi dell’AMS (Acute Mountain Sickness, il famigerato mal di montagna). Procede ormai a stento, sembra invecchiato di trent’anni. Io gli vorrei dire che a queste altitudini non è consigliabile bere un paio di birre al giorno - le compra nelle tea house - ma non sono suo padre e sto zitto. Decidiamo che arrivati a Gokyo si ritornerà per l’omonima valle senza affrontare il Renjo La, l’altro temibile passo. Per festeggiare si scola un’altra birra.

(foto di Lachlan Jones)

Ci si sveglia in piena notte per andare a vedere l’alba sul Kala Patthar. Una processione di fantasmi infreddoliti e assonnati per raggiungere quello che sarà il punto più alto di tutto il tragitto, circa 5500 metri. Mi sento come Frodo mentre sale sul Monte Fato: ogni passo si fa sempre più pesante, difficoltoso, con le gambe di colpo diventate pietra. Cerco il conforto di Sam, ma non lo distinguo tra le ombre spettrali che si muovono lente e intabarrate accanto a me.
(foto di Lachlan Jones)

lunedì 27 ottobre 2014

Brividi a Gorakshep

Brividi di freddo, paura ed emozione. Nel pomeriggio arriviamo al miiitico – pronunciatelo alla Homer Simpson – campo base dell’Everest. Il romanticismo gioca (sporco) un grosso ruolo nei “più” del pianeta: il più alto, il più a sud, il più caldo, ecc. In realtà si tratta di una distesa di ghiaccio e roccia piuttosto anonima, da cui tra l’altro l’Everest manco si vede bene. Per fortuna sulla via del ritorno mi rotolano a pochi metri dalla capoccia dei grossi massi staccatisi dalle cime, che schivo appena in tempo grazie ai super-riflessi acquisiti dopo essere stato leccato da uno yak radioattivo. Almeno ho qualcosa da raccontare.

(foto di Lachlan Jones)
Gli altri, in piumino e guanti pesanti, racconteranno invece di quell’imbecille che sopra i cinquemila metri stava in maglietta e pantaloncini corti. 

(foto di Lachlan Jones)

venerdì 24 ottobre 2014

Le comadri di Lobuche e l'arte postmoderna

Mi sveglio alle cinque, come sempre. Esco dal sacco a pelo e davanti a me mezza carcassa di yak penzola appesa a un gancio, in pieno corridoio. È il vantaggio di non avere bisogno dei frigoriferi.
Inizia a far freddo sul serio. Siamo sopra i 5000 metri. L’acqua nelle tubature è congelata. L’acqua nei bidoni è congelata. Mollo un pugno e spezzo lo strato superiore, poi mi lavo il viso. Mica ho le salviettine umidificate, io. Perdo immediatamente sensibilità su tutti i muscoli facciali, acquisendo per qualche secondo l’imperturbabilità di un lama tibetano. Trucco scoperto! Altro che meditazione!

(foto di Lachlan Jones)
Mentre gli altri fanno colazione vado a lavare i panni al fiume. Incontro due donne sherpa. Namaste. Namaste. Ci salutiamo con grandi sorrisi. I loro sorrisi sono un po’ troppo evidenti, però. Saranno i miei pantaloncini corti, penso. Qui sull’Himalaya non ho visto nessun altro indossarli. Pappemolli. Molluschi. Ominicchi. Gonfio il petto di maschio orgoglio e comincio a lavare. Una mi indica, ora ride apertamente. Inizio a innervosirmi. Strofino più in fretta, mentre le due comadri ridono sempre più sguaiatamente. No, non sono i pantaloncini. Finisco di lavare, decisamente a disagio. Afferro le calze bagnate, ma non ci riesco: in pochi secondi si sono congelate insieme a mutande e maglietta in un unico, inamovibile blocco di ghiaccio. Solo dopo averlo preso a calci riesco a staccarlo, a fatica, dalla roccia. Mi metto in spalla la mia scultura postmoderna in cotone, ghiaccio e acrilico e vado via, seguito dagli sghignazzi delle due donne che ormai echeggiano nella valle. Lo racconteranno per generazioni, intorno al fuoco di cacca di yak, di quell'imbecille che lavava i panni all’alba.

giovedì 23 ottobre 2014

Dingbouche: puzzare come yak o congelarsi le palle a 15 gradi sottozero?

Da Lukla in poi non esistono strade. Tutto viene portato a spalle o, per i più ricchi, a dorso di yak. Tutto vuol dire TUTTO. Se hai bisogno di un forno, di una porta, di mattoni, di un sacco di cemento, c’è solo un modo: fascia in testa, schiena curva e via, a macinare chilometri. È quello che fanno tutti, dalla nascita, da innumerevoli generazioni. Vedo ragazzini con bombole di butano correre giù per pendii ripidissimi. Uomini chini sotto il peso di interi tronchi d’albero. Mi dicono che possono portare una media di 50-60 chili a testa, in quelle condizioni. Non mi dicono però qual è la media di anni che raggiungono, in quelle stesse condizioni.



Lungo il cammino incontriamo diverse tea house dove dormire. Semplici, ma confortevoli. L’unico riscaldamento è dato da una stufetta nella stanza centrale, accesa per un paio di ore al massimo e alimentata da cacca di yak.
Non hanno intenzione di lavarsi con questo freddo, i miei tre trekking partners. Sozzi, oltre che caciocavalli. Hanno lo zaino zeppo di salviette umidificate, sembrano un asilo nido in trasferta. Io mi preparo il mio bel secchio di acqua gelida, mi spoglio, me lo getto addosso e canticchiando “Ghiaccio bollente” di Tony Dallara mi sfrego le ascelle con vigore. È notte, fuori ci sono -15 gradi.

mercoledì 22 ottobre 2014

Quaranta candeline a Tengbouche

L'Himalaya è una successione di yak, ponti sospesi, bandierine colorate e picchi altissimi che ti fanno venire il torcicollo. Il ciclone dell'India di due settimane fa ha fatto di tutto: due metri di neve in poche ore sopra i 5000 metri, il campo base dell’Everest evacuato in fretta e furia con gli elicotteri, valanghe sulla valle del Gokyo, feriti, tutti e tre i passi impraticabili, villaggi isolati e compagnia a briscola. Lasciando a noi, adesso, delle montagne ammantate di candida e splendida neve.

(foto di Lachlan Jones)

Tengbouche. I miei 40 anni non potevano capitare in un posto migliore. Un piccolo ma confortevole tea house, la stupa, uno splendido monastero buddista e... una bakery, dove ho ordinato la mia torta di compleanno con la scritta "tanti auguri" in nepalese, con tanto di candeline! Camera con vista sull'Everest, montagne innevate e rosse al tramonto tutte intorno, il dal bhat più buono finora provato, stelle cadenti, gli yak sotto la finestra a cantarmi la ninna nanna: cos'altro desiderare?
In questi primi quarant'anni ho fatto un sacco di esperienze belle, conosciuto un sacco di persone belle. Nei prossimi quaranta farò il bis. È tutto qua. Così semplice.

martedì 21 ottobre 2014

Namche Bazaar - Kungh Jung: merda di yak e caciocavalli

I miei compagni di trekking sono dei caciocavalli: dopo sei ore di trekking sono a pezzi, li lascio nella tea house di Namche Bazaar a riprendere il fiato. Pfui. I giovani. Meno male che facciamo un giorno di acclimatazione, se no questi mi muoiono per strada.
Vado su e lascio alle mie spalle i rumori di uomini e bestie, che la nebbia inghiotte in un attimo insieme alle bandierine tibetane e alle rocce dalle gigantesche iscrizioni in lingua sherpa. Vado da solo, senza meta, perdendomi in mezzo al nulla ovattato. Rigorosamente in pantaloncini. Al ritorno incontro una scalinata intagliata nella pietra, la seguo. All’improvviso la nebbia si apre, è il tramonto, un monte solitario e appuntito come una lama si erge in mezzo al cielo, immenso sopra di me, a un’altezza che mai avrei potuto immaginare, con la parete ghiacciata colorata di rosa ormai pallido. Mi commuovo.

(foto di Silvia Carrozzo)

A Kungh Jung incontro un giovane locale con una grossa cesta sulle spalle, appena mi vede mi sorride e mi stringe vigorosamente la mano. Simpatico, il tipo. Non parla inglese, la nostra conversazione dura tre secondi. Namaste. Namaste. Mentre vado via mi giro. Mai farlo, mai voltarsi indietro: ricordate cosa è successo a Orfeo? Lo vedo estrarre dalla cesta delle enormi polpettone di merda di yak e spalmarle con cura sulla roccia (per seccarle: è il combustibile locale), con la stessa mano con cui ha stretto la mia. Poi dicono che l'antitifo non serve.

lunedì 20 ottobre 2014

Lukla, ovvero “il luogo con molte capre e pecore dove si muore volando”

Lukla, la porta dell'Everest, ha ufficialmente uno tra i primi cinque aeroporti più pericolosi al mondo. La pista, lunga più o meno come il corridoio di casa mia, è costruita tra una montagna e un precipizio vertiginoso. Non c’è lo spazio sufficiente per frenare durante l’atterraggio, quindi per evitare che gli aerei si schiantino sulla montagna la pista è stata fatta... in salita! Al ritorno l'aereo non decolla, ma semplicemente cade nel burrone e poi (non sempre) plana. Possono arrivarci solo piccoli bimotori a 14 posti, con piloti che hanno un addestramento speciale: quello di recitare il rosario più velocemente di tutti gli altri. Quando vedo la cloche rappezzata con il nastro adesivo anch'io divento velocissimo. Si vola solo con visibilità ottima. Sfioriamo le montagne a pochi metri, mentre due hostess gentilissime e pallidissime offrono caramelle e rosari per distrarci dalla morte imminente. Io penso a mia cugina Ilaria che ha paura degli aerei e rido. E comunque prendere il taxi a Kathmandu è MOLTO più pericoloso.

(foto di Lachlan Jones)
Intanto godetevi questo, sarà più o meno il mio itinerario: http://www.youtube.com/watch?v=t1-vTt_eI-w . Immaginatevelo con il sole e lunghe file di yak che camminano sui sentieri innevati. 

domenica 19 ottobre 2014

Money is money, monkey is monkey

In Nepal le banconote hanno un colore simile per tutti i tagli. In più hanno il retro uguale. In più sono stampate con uno speciale inchiostro che sbiadisce dopo massimo un paio di giorni, rendendole assolutamente indistinguibili una dall’altra. Se la banconota è appena uscita dalla Zecca di Stato puoi sempre orientarti con la forma delle corna del bovide rappresentato, ma se non sei zoologo è facile che finisca per pagare tutto doppio.


Domani all’alba si parte per l’Himalaya. Alle sette e mezzo ritiro le rupie che mi servono da un bancomat, pare che l’Himalaya sia sprovvista. Il primo tentativo va a vuoto. Sorrido al guasto tecnico e provo alla macchina accanto. Non va. In fondo sono in Nepal, mica sulla Rambla. Sorrido di nuovo, meno sicuro. Il terzo non va. Sorrido nervosamente e provo sia la carta italiana che quella spagnola. Il quarto non va. Sudo freddo, il sorriso mi si gela sul viso. Rimane un quinto e ultimo bancomat in città.
Mi avvicino stringendo i denti.
E affidandomi alle 124 divinità del pantheon indù.
Non va.
Almeno noi abbiamo un solo Dio, a bestemmiare si fa meno fatica.
Devo ancora pagare sette notti di albergo, comprare del materiale di montagna, senza contare i soldi che servono sull'Himalaya. Ho in tasca rupie sufficiente per un caffé. Senza zucchero. Domani alle cinque di mattina devo essere in aeroporto con gli altri.
Chiamo l’help line della Visa. Sono gentili e professionali. Mi dicono che a loro non risulta, e comunque devo fare riferimento alla banca del controcorrente associato. Li mando a fare in culo un attimo prima che cada la linea.
Chiamo la banca italiana, grazie al fuso orario la trovo aperta. Sono gentili e professionali. Mi spiegano che hanno bloccato il mio conto per le norme anti-riciclaggio, ma non c’è problema: domani passo in filiale, firmo un foglietto e tutto torna a posto. Li mando a fare in culo prima che finiscano la frase.
Chiamo la banca spagnola. Sono gentili e professionali. Scopro che il mio limite di prelievo è 200 euro al giorno. Che in Nepal magari va bene, ma in Svizzera ci fai appena colazione. Li mando a fare in culo dopo che mi aumentano il tetto massimo.
Uscito ancora nervoso dal phone center una signora occidentale mi ferma, affannata. Ci metto qualche secondo a capire che mi sta chiedendo dove ho comprato la tunica che ho addosso. Indovinate in che momento la mando a fare in culo, quella scimmia?

venerdì 17 ottobre 2014

Kathmandu, Bhaktapur, chiaroscù

Gli stupa sono bianchi o dorati, tranquilli, privi di immagini. I templi induisti, scuri e sovraccarichi, hanno divinità così numerose e pittoresche da far impallidire il battaglione di supereroi Marvel. Ce n’è uno con la maschera da lottatore di lucha libre e il mantello rosso. È in momenti come questi che mi do dello stupido per non avere una macchina fotografica.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)
Riesco a entrare nella Durban Square di Bhaktapur senza pagare. O meglio, quando sono già dentro mi rendo conto che devo versare un obolo. Una tipa mi ferma, mi mostra un tesserino e mi chiede il biglietto. Non ho una rupia in tasca. Le faccio un grande sorriso e poi, con un inglese più maldestro di quello che parlavo in prima media, le spiego della supercazzola con scappellamento a destra. Quella si confonde e mi lascia andare. Faccio un saltino all’Alberto Sordi e penso che in fondo noi italiani abbiamo i governanti che ci meritiamo.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)

Rafting? Parapendio? Ghiacciai? Cazzate. Se vuoi veramente sentire l'adrenalina scorrerti nel corpo prendi un taxi. Siediti accanto al guidatore. Accertati che sia scalzo. Tempestalo di domande stupide come "Qual è la percentuale di induisti in Nepal?". E inizia a pregare.
Oggi nell’unica carreggiata ci siamo noi, altri tre taxi, due bus, tre risciò, un numero imprecisato di cani, e ci sorpassiamo senza ritegno l'uno con l'altro, da tutte le parti. Improvvisamente tutti scartano sulla sinistra. Anche i cani. Arriva in direzione contraria un camion nero come l'inferno che strombazza manco fossero le trombe del giudizio. È pazzo, penso, ha rischiato di fare una strage.
Scopro che non era una strada a senso unico. Già, proprio così. Eravamo tutti sulla carreggiata sbagliata. Anche i cani.
Così scopro che qui tengono la sinistra. O meglio, non tengono proprio niente. Neanche il volante. Neanche alla vita tengono. Per questo è così affollato il pantheon indù: sono necessari un paio di dei per ogni automobilista.
Tanto alla fine di traffico muori lo stesso. Poco a poco. Per lo smog. Kathmandu è una delle città più inquinata del mondo, vanno tutti con le mascherine. Anche i cani.


Davanti il commissariato di polizia svetta la riproduzione perfetta di uno scheletro a cavallo di una moto. Il cartello in nepalese dice qualcosa del tipo "Cerca di stare attento mentre guidi, coglione, ché ti giochi la vita tua e quella degli altri".
Secondo me non è un metodo di dissuasione adatto, in un paese i cui la maggioranza degli abitanti credono nella reincarnazione.
(foto di Silvia Carrozzo)


Poche ore dopo aver comprato la SIM nepalese mi arriva il seguente messaggio: vata khan mama ko gharma aaejore. “Se vuoi il pranzo, passa dalla stanza dello zio”, credo. Per un attimo penso di accettare e mangiare con ‘sto zio, chiunque egli sia. Poi la mente va al djhgljylufvgtvfqasas e ci rinuncio.

giovedì 16 ottobre 2014

Kathmandu, il giorno che piovve per sempre



Il solito culo. Un ciclone imprevisto dall'India. Due giorni di pioggia continua e battente che manco durante i monsoni. Almeno ha lavato la strada dal sangue dei bufali sgozzati.
Manca la luce. Manca l’acqua (quella dentro le case).
Ma qui la festa continua, pioggia o non pioggia. E io ovviamente mi accodo.
Ho messo i lumi rituali davanti alle principali divinità.
Ho portato al collo la beneagurante collana di fiori arancioni e viola.
Ho comprato la mia veste lunga e ci vado in giro da ieri.
Per integrarmi del tutto mi manca solo il tika sulla fronte.
Il tika è una macchia rossa (riso, o altro) che rimane appiccicato per ore tra occhio e occhio. Un rituale familiare, è come farsi gli auguri di Natale. Ce l'hanno tutti, per tutto il giorno.
Buffo, sembra che abbiamo immerso la testa dentro un pentolone pieno di riso al pomodoro.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)

Con la tunica e i capelli rasati mi scambiano per un religioso e mi salutano rispettosamente. In maglietta, invece, cercano di vendermi hashish a ogni angolo della strada. Poi dicono che l’abito non fa il monaco. 

(foto di Silvia Carrozzo)
 Conosco i miei compagni di trekking: Lachlan (Australia), Maya (Russia) e Moi (Svezia). Quello con cui faccio più amicizia è Moi, che si chiama in realtà Mohamed Brajanovic ed è di origine bosniaca. È castano con gli occhi azzurri, altissimo e magro, mi spiega che ogni volta che manda il curriculum deve sempre aggiungere una foto perché altrimenti non c'è nessuna speranza che lo leggano. Dopo aver lasciato un’importante multinazionale, è stato volontario per qualche mese a Kathmandu, il tempo sufficiente per odiare profondamente il dal bhat (piatto nazionale, riso con zuppa di lenticchie e verdure varie. Qui si mangia TUTTI i giorni). È patito di calcio e legge tutti i giorni la Gazzetta dello Sport. Conosce tutti i giocatori dell’Atalanta dal 1958 a oggi. Parla anche un poco d’italiano. Un tipo bizzarro e simpatico.
(no, il terzo della foto non è Lachlan ma la sua guida, Santa)

(foto di Lachlan Jones)

mercoledì 15 ottobre 2014

Le scimmie di Swayambhunath


Sono preoccupato.
Sì, è vero, i soldi. Basta maneggiare una banconota per prendere tutti i batteri di Nepal e dintorni.
E poi ci sono le ruote della preghiera buddiste: toccate da migliaia di mani al giorno, secondo l'OMS sono la prima causa di morte in Asia.
Ma in posti come questi la prudenza non è mai troppa.
Allora come sempre faccio nei miei viaggi prendo le opportune misure igieniche.
Vado fuori dal quartiere turistico e inizio ad adocchiare i baracchini. Ne trovo uno particolarmente sporco, buio, un garage in cui tagliano la verdura e qualcos'altro di indefinibile a terra, a piedi nudi, accanto a un calderone ribollente d’olio. Controllo le mani della signora. Nere. Ottimo. Nell'aria un odore di putrefazione misto a grasso bruciato. Perfetto. Ordino un paio di cose a casaccio, tanto madame parla solo nepalese: faccia lei, mi fido. Ingurgito delle focaccine estremamente fritte e giallastre che la signora mi porge dopo essersi strofinata le luride mani sulla ancor più lurida gonna.
Non mi sento ancora sicuro. E l'ameba? E gli altri parassiti dell'acqua? Per strada un tipo vende una specie di limonata fatta a mano sul momento, spremendo dei limoni verdi piccoli come nocciole, l'acqua è presa da un bottiglione di vetro che ha sicuramente conosciuto Gengis Khan. Ne chiedo due bicchieri.
Adesso sono soddisfatto.
Se diarrea deve essere, meglio qui che sull'Himalaya a 5000 metri d’altezza.
(Ovviamente il mio turpe stomaco neanche ha alzato il sopracciglio).

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)

Sono passati tre giorni e ancora non mi sono ripreso dal djhgljylufvgtvfqasas né dal fuso orario di 5 ore e 45 minuti. Sì, 5 ore e 45 minuti. D'altronde il Nepal è l'unico paese al mondo ad avere una bandiera non quadrangolare.
Oggi è gran festa, la città si colora di rosso, dai cani che sono ad ogni angolo di strada ai visi delle persone. Le ghirlande arancioni coprono case, macchine e moto. Tutti portano offerte di cibo e bruciano incenso a oscure divinità dal viso sfigurato.
Nel pomeriggio vado al tempio di Swayambhunath, sulla collina di fronte Kathmandu. Sotto una pioggerellina sottile mi emoziono davanti alle scimmie truci, agli alberi secolari, alla stupa enorme, ai monaci di rosso vestiti, alle centinaia di lampade a olio che bruciano davanti alle statue di decine di budda tutti diversi tra loro. Giro le ruote della orazioni nel senso stabilito, elevando la mia preghiera al cielo.
Magari funziona e la diarrea non mi viene affatto.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)

Qui i templi sono ad ogni angolo di strada, in mezzo alle piazze o nascosti dietro le cassette di frutta, ricoperti di oro o abbandonati alle intemperie. Qui Dio ha il volto smangiucchiato dalla ruggine, una buccia di mango buttata accanto, un cane che gli piscia addosso, delle mutande stese ad asciugare sulle ginocchia. Non come da noi, dove Dio abita in luoghi elevati, eleganti, esemplari. Da noi Dio abita lontano.  
(foto di Silvia Carrozzo)

(foto di Silvia Carrozzo)

martedì 14 ottobre 2014

Kathmandu: uomini, dei, galline e motociclette

Alle 3 mi sveglio, sarà il fuso orario o il djhgljylufvgtvfqasas.
Alle 4.55 mi riaddormento.
Alle 5.00 il suono di mille tamburi mi risvegliano.
Penso subito che l’edificio accanto ospita un conservatorio per insonni.
Poi arrivano canti e mantra e quelle che mi sembrano grida di animali sgozzati. Stonati, questi nepalesi.
Mi rincalzo le occhiaia dentro i sandali ed esco, sono le sei.
Kathmandu è un groviglio di persone dai tratti somatici diversissimi (18 etnie, o giù di lì), odori di spezie, negozietti ammonticchiati, fili della luce intrecciati e colori sgargianti.
Scopro che oggi è il Maha Navami, il nono giorno del Dashain, la festa religiosa più importante di tutto il Nepal. La strade sono strapiene di gente venuta dalle valli circostanti, tutti con la tradizionale ghirlanda di fiori arancioni al collo. Seguo la fiumana, converge verso Durbar Square, la strada è bloccata dalle camionette di militari, anche loro con la ghirlanda (sia i militari che le camionette). Ammonticchiano un centinaio di bufali sgozzati davanti ai templi. Mi scuso mentalmente con i passanti per averli chiamati stonati.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)
Sono accolto come un figlio da Shree e sua moglie, i gestori del piccolo ostello che sarà la mia casa per una settimana. Elegantissimi, visti i giorni di festa. Lei sfoggia per l’occasione un bindi rilucente. Mi spiega che lo portano solo le donne sposate. Tanto l'uomo, aggiunge lei beffarda, fa sempre quello che gli pare, sposato o no. Mi sento a casa.

(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)
Sulle case non ci sono i numeri civici. Come arriva la posta? Mi dà da riflettere. Forse i numeri civici nascono quando per strada non ci si conosce più.


(foto di Silvia Carrozzo)
In un tempio vendono calze e riso, in un altro dormono pigramente dei cani, un terzo è trasformato in un’improvvisata macelleria. Nell’ultimo tre tipi contano dei soldi, centinaia di banconote ordinate per terra. Le scimmie passeggiano sui fili della luce, l’odore delle friggitorie si confonde con quello degli incensi degli antichi stupa dorati, buddisti e induisti passeggiano insieme, non capisco dove iniziano le case e finiscono gli orti. Questa è la prima e più profonda impressione che ho di questo luogo: un territorio dove i confini si confondono, dove in chiassosa e disordinata armonia convivono uomini, dei, galline e motociclette. 
(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)
(foto di Silvia Carrozzo)


lunedì 13 ottobre 2014

Roma - Parigi - New Delhi - Kathmandu

L’aereo lascia l’India alle sue spalle, le maestose montagne nepalesi sono sotto di me.
Cosa provo mentre rigiro tra la mani il mio biglietto di sola andata?
Sgomento. Smarrimento. Un groviglio di domande senza risposta.
Quando sarà la prossima volta che mangerò porchetta?

(foto di Silvia Carrozzo)
La parte più pericolosa dell’intero viaggio è ormai alle mie spalle. La corsa in taxi dall'aeroporto di Kathmandu rischia di lasciare per strada due cadaveri di vacca e uno di cane. Secondo me la seconda vacca è già cadavere, perchè non si muove neanche quando la urtiamo con la ruota.

(foto di Silvia Carrozzo)
Nel pomeriggio incontro Bhatt, Eliana e Jacqueline: rispettivamente India, Argentina e USA.
Giretto nel quartiere e cena veloce, in volo non ho chiuso occhio e sono a pezzi.
Spero che il djhgljylufvgtvfqasas (nella traslitterazione ho semplificato) mi lasci dormire.
Venduto come hot soup, è in realtà una micidiale arma da guerra dal grado di piccantezza sconosciuto perchè fuori scala. Quando non è inserito nelle testate missilistiche viene servito con delle verdure cotte. Un calabrese reggerebbe massimo tre cucchiaiate. Io mi fermo alla seconda, poi lo offro con un sorriso innocente a Jaqueline. Fine di un'amicizia appena iniziata, ma quanto rido. Se avevo qualcosa nello stomaco, adesso è morto. 
Bhatt fa una smorfia di delusione, per lui è scipito. Tolgo subito l'India dalle prossime possibili destinazioni.

(foto di Silvia Carrozzo)

Partire è un po' vivere

Io mica l'ho capito il perchè.
Involtini primavera a parte, l'Asia in quarant'anni non mi ha mai attirato.
Ma per fare un viaggio non è necessario sapere i perchè. 

(foto di Silvia Carrozzo)

Kathmandu, biglietto di sola andata.
Non ho idea di quanti mesi starò via, né di dove andrò dopo il Nepal. Dai ghiacciai dell’Himalaya è previsto il sudest asiatico, ma potrei arrivare fino all’Oceano Indiano o al deserto del Gobi.
Fare le valigie è un rito ormai levigato da venticinque anni di nomadismo.
Il costume da bagno conta come bandana, la maglietta in microfibra come asciugamano, il passamontagna come sacchetto degli sporchi, la penna come cannuccia per bere dai cactus.
Alla fine entra tutto in uno zainetto di otto chili.  
Solo bagaglio a mano: la prima scommessa è vinta.
Devo solo ricordarmi di togliere le mutande sporche prima di infilarmi in testa il passamontagna.

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NOTA: ove non indicato, le foto sono allegramente saccheggiate dalla rete.