mercoledì 31 dicembre 2014

Il bagno di Capodanno

Il fuso orario anticipa i tempi. Qui è già arrivata la notte di Capodanno, nonostante sembri Ferragosto.
Zaka è scomparso, io e Coralie andiamo dall’altra parte dell’isola, controcorrente rispetto alla smisurata folla che sfila lungo lo stradone buio per recarsi a messa. A un crocicchio compriamo una bottiglia ciascuno di Red Horse, pericolosissima birra disponibile solo nel formato da un litro, e ci buttiamo su una spiaggia per un bagno di mezzanotte. Ubriachi, perché la Red Horse ha inspiegabilmente un grado alcolico superiore a quello del rhum. In pieno blackout, grazie ai presepi. Esposti agli attacchi degli squali, secondo i ragazzini che si premurano ad avvisarci del pericolo. Noi ridiamo, immaginando i denti aguzzi nelle nere acqua sotto di noi. Così sono morti in molti, pare.
Ma non è ancora il nostro turno e allora, ancora gocciolanti di acqua salata, risaliamo sulla moto e andiamo in giro gridando a squarciagola Happy New Year, integrandoci così perfettamente nel panorama locale. Mentre i fuochi d’artificio scuotono il cielo.

Buon ferrag... buon anno!

I vulcani di Camiguin

Bohol è bella. Le Chocolate Hills, i buffi tarsiers, le risaie, le palme, il pollo all’aceto, le casette con i fiori, il verde lussureggiante, la caotica capitale Tagbilaran. Ma la tranquilla Anda e le sue spiagge bianche rappresentano l’angolino più affascinante. Sarà per il mare che mi circonda, sarà per il sorriso della gente, sarà perché in una settimana già mi sento parte della comunità locale, ma io ad Anda mi sento felice. Capisco perché Marc viene qui da anni. Io però oggi vado via. Lo saluto, saluto anche Nanay e sua figlia Destiny, la bakery. Le Filippine mi sono già entrate nel cuore: com’è diverso fermarsi in un posto per tanti giorni e conoscere la gente, rispetto al Bus&Go che praticavo in Cambogia. 
Prendo il ferry che mi porterà a Camiguin, a sud. Sprovveduto come un granchio, sono rimasto senza soldi. Il Nepal e la Cambogia evidentemente non mi hanno  insegnato niente. L’unico bancomat è fuori uso. Se non fosse stato per le poche centinaia di pesos vinti allo lotta tra galli sarei rimasto a terra. Grazie, pennuti maledetti.

Dentro la nave impazza il karaoke. Sullo sfondo, Camiguin
White Island: i filippini non ci credono, ma ci sono arrivato a nuoto

Camiguin è pieno di vulcani. Pare sia il posto al mondo dove ci sono più vulcani per chilometro quadrato. Vero o no, dalla nave sembra l’isola di King Kong. L’interno è dominato dalla giungla e da coni vulcanici. Scendiamo, ci infiliamo in quattordici dentro un tuk-tuk e cerchiamo dove passare la notte. L’isola è piena di presepi surreali fatti di noci di cocco, illuminati a giorno, lungo l’unico grande stradone che fa il giro dell’isola. Ogni tanto un blackout, troppi presepi. Tra un presepe e l’altro ci sono dei piccoli bar dimessi, dove enormi uomini bianchi di mezza età bevono e scherzano accompagnati da giovani ed esili filippine in silenzio. Chissà che storia c’è dietro di loro, bianchi e filippine. 
Io, Zaka e Coralie ci installiamo dentro dei bungalow che sembrano abbandonati su una spiaggia nera come fuliggine, in mezzo alle palme. Lasciati a noi stessi, con il bar-reception che apre agli orari più impensati. In qualunque momento potremmo andare via senza pagare, come nella maggioranza dei posti in cui sono stato. Si vede che gli italiani qui ancora non sono arrivati.
Poggio le mie cose nella capanna, mi metto il costume, mi dirigo verso la sabbia vulcanica. A un paio di chilometro davanti a me White Island, una minuscola striscia di sabbia e corallo morto che cambia forma con le maree. Calcolo la distanza: ci vorrà più o meno un'oretta, oretta e mezzo. Le correnti non sembrano proibitive. Non vedo pinne di squalo affiorare. Mi tuffo. Nuoto lentamente, senza fermarmi, fino a vedere finalmente sotto di me i coralli affollati dell'isoletta. Mi tiro su, in piedi, sulla sabbia bianca, guardo i vulcani di Camiguin e mi riempio i polmoni di vento pulito e salsedine. Poi mi ributto in acqua e punto verso la terraferma.
Perchè oggi è l'ultimo dell'anno e perchè sono uno splendido quarantenne.

Oggi è così, domani chissà che forma avrà

martedì 30 dicembre 2014

Sabong. Il cerchio si chiude (nel sangue)

La famiglia che ci affitta i bungalow ha dei galli. Tutti hanno galli. Molti galli. Galli come se piovesse. Galli addiribasta. Evidentemente non è bastato prendere un aereo per sfuggire a questa piaga biblica che non mi farà dormire nemmeno qui.
Per un attimo la curiosità prende il sopravvento sulla sete di vendetta e chiedo alla signora come mai queste graziose creature devono spaccarmi i coglioni in così grande numero anche qui. Vengo a sapere qual è  lo sport nazionale delle Filippine. Non posso crederci. Con la memoria ripercorro i momenti salienti della mia vita, alla ricerca di una colpa che possa giustificare tanto odio da parte dell’universo.

Finalmente capisco il proverbio dei due galli nello stesso pollaio

Sabong, la lotta tra galli. Più sacra di San Pallone in Italia, e ho detto tutto. Una religione, più che uno sport. I galli famosi vengono coccolati come delle star, con tanto di casette individuali e un'alimentazione che qui non riservano nemmeno ai propri figli (un gallo da battaglia costa dai 5000 ai 7000 pesos, e poi lo devi allenare). Ogni filippino ha una dozzina di galli” che alleva, cura, addestra per l’agone. Il calcolo è semplice: cento milioni di filippini moltiplicato per dodici galli fa zero ore di sonno. 
Mentre mi sta per partire un bestemmione galattico ci penso su. In fondo è qui che i miei nemici giurati trovano la loro giusta fine. Uccidendosi l’uno con l’altro senza pietà. Il mostro che è in me sogghigna, mentre Hyde ruggisce per venire a galla. E lo fa domenica pomeriggio.

Il figlio allena i galli con un fantoccio (foto di Coralie Pelletret)
La micidiale lama si aggiunge al momento (foto di Coralie Pelletret)

Accompagnato da Zaka mi dirigo nell'arena di Anda.
Appena entro vengo investito da un frastuono che quasi mi butta a terra. I galli vengono presentati al pubblico mentre tutti esplodono in grida a me incomprensibili. Sembrano dei broker epilettici durante il crollo della Borsa. Va bene, stanno scommettendo, ma cosa? Indicano con le dita le somme da giocare (spropositate: fino a 5000 pesos, ovvero il salario medio mensile), ma con chi? Non c'è nessuno che raccoglie i soldi. Ci metto una ventina di minuti per capire, tanto la cosa è lontana dall’italico modo di fare.
Il fatto è che scommettono tra di loro: ognuno cerca intorno un altro che scommetta la stessa cifra sul gallo avversario e alla fine del combattimento chi perde paga. Con la massima tranquillità, senza fare storie, sborsando cifre da capogiro. Che onestà. In Italia i perdenti se la darebbero a gambe, inseguiti dai vincitori furenti, e il tutto finirebbe a colpi di crick.

Il cockpit di Anda, io sono di quinta (foto di Coralie Pelletret)

Mentre cerco di sviscerare l'antropologia locale del gamblig le urla arrivano al cielo. I galli vengono avvicinati uno all'altro, innervositi, provocati, incitati alla pugna. Alle zampe hanno legata una lama affilatissima di 4-5 centimetri. Il combattimento finisce con la morte dell'avversario.
La prima lotta a cui assisto dura pochi secondi, un pennuto crolla al suolo. Collasso cardiaco, mi spiega un vicino, i galli hanno un cuore debole e non sopportano tanto stress. Mi sfiora un sentimento di pietà per quelle povere (bastarde) bestie.
La seconda  lotta  è orribilmente crudele, uno dei due becca l'altro fino a straziarlo. Mi sfiora un sentimento di repulsione alla vista di tanto dolore.
La terza  lotta  finisce in un lago di sangue. Inizio a farci l'abitudine.
Alla quarta  lotta inizio a scommettere. Valuto velocemente dimensioni, aggressività, destrezza, flessibilità del collo, posizione della lama.
Alla quinta lotta sono in piedi e urlo come un ossesso (in italiano) Vai, biondo! Strappagli il cuore a quel figlio di puttana! Mettigli quella cazzo di lama tra le scapole!
Zaka mi guarda preoccupato. Mi sfiora il ricordo di quando un giorno a Barcellona partecipai a una manifestazione contro la corrida, ma è solo un attimo: arrivano altri due galli e devo studiarli, non c'è tempo per inutili nostalgie. 
Sono anche piuttosto bravo, il filippino accanto a me capisce che ci azzecco e inizia a puntare sullo stesso gallo su cui punto io. Scommetto. Grido. Incito. Vinco. Esulto. Passo così tutto il pomeriggio della domenica, insieme a una folla di maschi sudati e urlanti, con i soldi appallottolati e lanciati dagli spalti. Inutile fare morale se non ci siete stati, inutile citare a sproposito Gandhi e San Francesco. Solo il cuore sensibile di alcuni ultras può capire quello che ho provato io in quell'arena sporca di segatura e sangue. 
Il cerchio si chiude. I galli mi ripagano di tanto sonno perso con un grande spettacolo e con un bel po’ di soldi.

Game over

lunedì 29 dicembre 2014

Waterworld

Anni fa i dottori mi proibirono le immersioni.
Con i miei problemi alle orecchie, dissero, rischio la sordità totale. Fatto sta che Zaka è istruttore di diving. E che le Filippine sono una delle mete preferite dai sub di tutto il mondo. Decido che me ne fotto, delle mie orecchie.
Mai decisione fu più intelligente.Quello che vedo là sotto supera ogni mia immaginazione, e sì che avevo guardato documentari sulla barriera corallina. Stare sospeso sott'acqua, in silenzio, tra le acque cristalline del reef, mentre intorno a me un universo colorato e sconosciuto si muove senza sosta, mi commuove profondamente. Solo in cima al monte Gokyo sull’Himalaya ho provato un sentimento così intenso. Rimango a bocca aperta per la bellezza di quello che ho intorno. Poi mi rimetto l'erogatore in bocca e riprendo affannosamente a respirare. E a rimirare coralli che sono opere d'arte, tartarughe giganti, stelle marine indaco, ostriche grandi come una poltrona, serpenti di mare, pesci di ogni forma e colore.

Una lumaca cornuta a pois
Due lumache cornute dai sobri colori
Questo l'ho chiamato pesce TimBurton
Questa specie di labirinto/cervello marino è corallo!
Il parrot fish è bello da vedere e buono alla griglia

Il reef di Bohol è pieno di stelle marine-puffo

Non so se è pericoloso/a, ma io mi sono allontanato lo stesso
Sembra piccola e tenera, ma è più grande di me e incazzosa

Mi invento dei nomi: il pesce-trombetta lungo e affilato, i pesci-ape a strisce nere e gialle che nuotano solo in branco, il pesce-Dracula con le occhiaia intorno agli occhi e i due denti sporgenti, il pesce-Yorkshire che mi segue curioso e di tanto in tanto rompe i coglioni, il pesce-Boselli il cui muso ha lo stesso profilo del mio capo, i pesci-pappagallo con il becco e i colori iridescenti, il pesce-solo-coda, il pesce-pepita d'oro, il pesce-unicorno, il pesce-gigante e tanti altri ancora. Che meraviglia. Rimango senza fiato. E se non ci fosse stato Zaka sarei rimasto senza fiato in senso letterale: mi prende per un braccio e mi trascina in superficie, nella mia bombola c'erano soltanto 20 bar di aria rimasti.
Da grande voglio fare il sub. Come ho potuto perdermi tutta questa meraviglia?

domenica 28 dicembre 2014

Meretrici e muratrici

Con Elry e Steve, la coppia filippino-canadese, si va in spiaggia. Dopo aver loro fatto un servizio di foto romantiche, ci diamo al beach volley. Siamo io e Steve più due ragazzine del posto, che dopo molte timidezze decidono di giocare con noi. I loro accompagnatori non sono molto contenti, nonostante Elry garantisca per noi. 
Essere occidentale qui vuol dire: 1) essere ricco 2) essere interessante e/o esotico 3) essere bello, comunque e sempre, secondo i discutibili canoni estetici locali 4) essere un possibile romance che, chissà, tra il 186° episodio e il 187°, potrebbe condurre a una famiglia felice. La dedizione e il romanticismo irriducibile delle filippine le rendono appetibili di chi viene qui in cerca di sposa o di una storia d’ammmore.
Chi cerca sesso invece può andare ad Angeles, trenta chilometri a nord di Manila: è qui, accanto all’aeroporto di Clark, che la US Air Force creò ai tempi dell’occupazione il proprio quartiere generale.

La prima foto che esce se googleate "Angeles Philippines"...

...e questa la sesta (Blogspot non mi lascia postare le altre)

In un paio d’anni si è schizzati da poche decine a 100.000 prostitute, distruggendo una generazione intera e lasciando una ferita indelebile, ancora apertissima, nel tessuto sociale filippino. E facendo sì che le Filippine contendano oggi alla Tailandia il primato come destinazione per turismo sessuale e pedofilo. Per USA e Inghilterra sono già al primo posto.
Angeles è un enorme bordello a cielo aperto. Il supermercato del sesso. Si calcola che al giorno d’oggi esistono circa 50.000 figli di militari che il governo USA non ha mai riconosciuto e di cui quindi non si fa carico. Ragazzini e ragazzine, ormai uomini e donne, con gli occhi a mandorla e i capelli biondi o castani, emarginati per le loro origini e in condizioni di vita precarie o disperate, per cui è stato coniato anche un aggettivo: amerasiatici. Nonostante il paese sia un alleato degli Stati Uniti, gli amerasiatici filippini – al contrario dei figli di soldati statunitensi nati in Vietnam, in Corea, in Tailandia o in Laos – non possono diventare cittadini USA. È tutto spiegato nel bel documentario italiano Left by the ship.



A proposito.
Cammino sulla spiaggia con Erly e Steve, loro a qualche passo dietro di me. Improvvisamente vengo investito un nugolo di fischi tra cui distinguo qualche “A’ bbello!”, “Sei libero stasera?”, “Non ce l’hai la fidanzata?” e “La mia amica sarebbe interessata! Non te ne pentirai!”.
Mi giro. Una quarantina di filippine tra i 30 e i 40 anni, tutte piuttosto robuste e decise, mi fanno il gesto di avvicinarsi. Sembrano già piuttosto ubriache. Hanno una maglietta viola con su scritto qualcosa, forse è l’Associazione Muratrici Fischianti. All’inizio mi ringalluzzisco, il mio ego di macho latino gonfia il petto. Poi i fischi si fanno più insistenti, gli  inviti pure, le allusioni anche. Che se fossero le leggiadre passanti di Bangkok sarei già con loro a sgolarmi nel karaoke, ma guardo le loro braccia muscolose e mi allontano. Per un attimo provo come si sente una donna puntata da un branco di uomini.
Il giorno dopo vengo a sapere che era una riunione di poliziotte dell’isola. Il fascino della divisa: ecco cosa mancava loro.

Se venivano in spiaggia così non avrei opposto resistenza

sabato 27 dicembre 2014

Sua Maestà Schiferrima il Balut

Visto che siamo sotto le feste, parliamo di cibo.
Nelle Filippine il capitolo alimentazione è lungo e complesso. Per mangiare io e Coralie andiamo sempre al turo-turo di Anda, dentro il mercato. Una dozzina di pentole sono allineate sul bancone e tu le indichi (turo) scegliendo un piatto di quella pietanza. Purtroppo dopo il cibo tailandese tutto sa di paglia, e l’amabilità di Nanay (“mamma”, così tutti chiamano la signora del turo-turo) non fa il miracolo. I minestroni con tamarindo e arachidi messe a casaccio, i grassetti bolliti, gli intestini unti, il riso scotto, danno al tutto un gusto vago. Né aiuta il fatto che vengano serviti tiepidi. Si salvano i pesci con il ginger, il pollo deep fried, qualche verdura.

Il turo-turo e il tocco di Marc in primo piano (foto di Coralie Pelletret)

Oggi però prendo la moto di Steve e vado in città, dove mi si aprono altri orizzonti. A forma di siomai e siopao, dei bola-bola (ravioloni locali) piccoli e fatti con la pasta di pane.
E poi ci sono loro, gli onnipresenti X-silog. Piatti di riso e uovo fritto dove al posto della X ci può essere praticamente qualsiasi cosa: tapsilog (con tapa di carne), tocilog (con tocino, altro tipo di carne), longsilog (con longganisa, un insaccato locale), hotsilog (con un hotdog), bangsilog e dangsilog (con due diversi tipi di pesce: bangus e danggit), chosilog (con chorizo), chiksilog (con chicken) e così più o meno all’infinito.

Alimentare è elementare: tocilog...
...longsilog...etc. etc.

Altrettanto infiniti sono i modi di fare il pane: nelle Filippine ci sono più panetterie che granelli di sabbia, e spesso sono aperte 24 ore al giorno, quasi che il pinoy non possa vivere senza pane/pasticcini/dolcetti/biscotti. Assaggio circa una ventina di questi prodotti da forno, ma a ogni paesino ne spuntano di nuovi. Sono dolciastri e scipiti, mi fermo dopo una ventina.
Nel caso dell’halo-halo, dessert tipico e amatissimo dappertutto, vince la curiosità e il colore viola fluorescente dell'ube. In parte gelato, in parte macedonia, in parte crema, totalmente chimico: non ho mai capito cosa ci sia dentro l’halo-halo. Anche qui si tratta di un mix di tante cose, tutte pericolosissime per la salute, messe più o meno alla cazzo di cane, secondo la vituperata regola (molto statunitense) del “buono + buono = buono”. Negli USA ciò ha dato origine alla pizza con l’ananas, nelle Filippine all’halo-halo.

L'halo-halo ha il nome di un atollo polinesiano...
...ed è sano come una delle bombe atomiche sganciate lì.


Altra eredità yankee sono i fast food dappertutto, la grandine di porcherie in bustina dove i coloranti e i nomi da jingle la fanno da padrone (su tutti i miei amati Ding-Dong), la ketchup che qui non è fatta con il pomodoro ma con la banana.
Ogni tanto dai banchetti fanno capolino strane anomalie geografiche, come il krapfen austriaco o l’ensaimada delle Baleari, entrambi popolarissimi. Per non parlare delle treccine, identicheprecisespiaccicate a quelle che trovavo a Palermo nel panificio del signor Lo Coco.
Ma l’imperatore della gastronomia locale, prelibatezza dei palati, invocato a gran voce dal popolo, ricercato dagli estimatori, sbandierato con orgoglio sulle tavole, conteso dai bambini, è lui: il balut. La cosa più disgustosa che (non) abbia mai provato. Perché col cazzo che mi mangio un uovo con dentro un embrione a metà sviluppato di pollo. Neanche il mio odio feroce per i galli arriva a tanto.

La gente ci va pazza. Per me è pazza e basta

venerdì 26 dicembre 2014

Quattrocento anni in convento e cinquanta a Hollywood

Quattrocento anni in convento e cinquanta a Hollywood: così qualcuno riassume la storia della colonizzazione nelle Filippine, prima sotto dominio spagnolo e poi controllata dagli USA. Che in ogni caso non è riuscita a omogeneizzare una miriade di esistenze diverse. Ci sono però delle cose che accomunano tutti i filippini, facendone un mosaico colorato diverso dal resto dell'Asia. 
Uno: il pane. Centinaia di panifici, centinaia di prodotti diversi, tonnellate di carboidrati ingurgitate quotidianamente. Niente noodles (se non nella locale versione della pancit), qui regna solo il pane e i dolci e i pasticcini, di cui vanno matti più che a Palermo.

Il pane bi- o tri-quotidiano

Due: la religione. È l'unico paese asiatico a (schiacciante) maggioranza cattolica. Un cattolicesimo spagnoleggiante, con tutto il dramma e la passione e i doppifondi del caso. Bohol è piena di presepi, l'unica strada che fa il giro dell'isola sembra un sagrato di Benevento.

Il vecchio Dio (sullo sfondo)...

Tre: il karaoke. Questo flagello divino, oppio dei popoli, quinto cavaliere dell'Apocalisse, ha messo radici nella società filippina come da nessuna altra parte al mondo. Ho visto macchine di videoke anche in mezzo alle baracche distrutte dai tifoni, distinti signori in doppiopetto che striduli tentavano degli improbabili acuti, una donnona cantare tutta sola e serissima fino a tarda notte davanti a uno schermo luminescente.
È difficile capire quanto sia importante il karaoke, quanto profondamente faccia parte della loro cultura: è come la birra per gli inglesi, la mamma per gli italiani, l'onore per i giapponesi, la retorica per gli statunitensi. Ed è la MORTE per qualsiasi altro essere vivente dotato di orecchie.

...e quello nuovo, l'implacabile videoke.


I terroni d'Asia

Le Filippine sono la Terronia dell'Asia. Non sono nemmeno Asia, se non geograficamente: complice la colonizzazione spagnola e quella USA non hanno nulla in comune con i paesi accanto. Gli stessi pinoy (filippini) sono diversissimi tra di loro. Settemila isole, 180 lingue diverse, cento milioni di abitanti, non so quanti gruppi etnici. 
In ogni caso parlano quasi tutti inglese, che qui è lingua ufficiale. La mia voglia di interazione con gli autoctoni, finora frustrata dalle barriere linguistiche del Mekong, esplode. Ci metto una mattinata per capirlo: amo questo paese. Amo i suoi jeepney colorati, le sue bakery, le sue spiagge bianche, i sorrisi semplici e divertiti. 
Ogni tanto ho l'impressione di stare in America Latina, saranno le chiese in stile barocco-messicano o le soap opera che imperversano sugli schermi e nei cuori locali. La gente ti si avvicina e domanda (in quest'ordine): Di che religione sei? Sei sposato? Perchè tua moglie e i tuoi due figli non sono con te? I pinoy non si accontentano di risposte vaghe, non sono riservati come i lao o i khmer. Ribatto, riempiendoli di dettagli, mentre la mia famiglia immaginaria prende corpo, si arricchisce di nomi e personalità, aneddoti e cappellini buffi, cibi preferiti e piccoli litigi quotidiani, nostalgie e lunghe mail. Al ritorno in Europa mi stupirò di non incontrarla in casa.

Lo special trip è quello che si è fatto il carrozziere del mezzo?
A ognuno il suo colore, ce n'è per tutti
Sarebbe anche sobrio, se non fosse per la cromatura laterale


giovedì 25 dicembre 2014

A merry crazy Christmas!

Come sapete, ho la fortuna di beccare le feste più importanti in tutti i posti dove vado. Qui si tratta del Natale. In Cambogia nulla ti fa pensare di essere vicino al 25 dicembre, non esistono cartelloni pubblicitari né vetrine infiocchettate. Non è che non si celebri: semplicemente nessuno sa che è Natale. Non esiste.
Invece nelle Filippine è un tripudio di berretti rossi, strenne, lucine colorate, stelline, A Merry Merry Christmas e pacchianate varie. E delle bellissime lanterne tradizionali a forma di stella che decorano la strada, le chiese e gli usci delle case. Ci credete che qui giocano a tombola?

Buon Natale!
Qui le stelle comete non hanno la coda, sono di un'altra razza

È la Vigilia, ci vuole una cena come Gesù comanda. Il mercato è chiuso, così come il piccolo supermercato e i baracchini intorno alla piazza. Uno strisciante panico si impadronisce di noi. Natale senza sfondarsi di cibo non ha senso, è contrario a tutte le tradizioni millenarie di tutte le civilità millenarie, esistenti e inesistenti, da Lemuria in poi. Poi incrociamo Marc, uno dei migliaia di francesi incontrati in questo viaggio (chi minchia è rimasto in Francia, se tutti i francesi sono in Asia?).
Marc però è diverso. Lui è matto come un cavallo. Ossuto e dinoccolato alla Benigni, con i capelli lunghi e scompigliati, sui sessanta, viene qui ad Anda da anni. La voce popolare mormora che si sia innamorato di una filippina di circa vent’anni, poi messa incinta da un terzo incomodo: basta mettere piede nel mercato per sapere tutti i dettagli del melodramma. Pazzo già da prima o impazzito in seguito, Marc prende in giro tutti, si muove scompostamente, fa grandi sorrisi. È intelligente e simpatico, e soprattutto è un gran figlio di puttana. Conosce ogni anfratto dell’isola (e delle isolane, si dice).
Quando ci vede disperati ci porta da un suo vicino che vende polli allo spiedo. Aggiunge un poco di riso. Da qualche parte spunta una bottiglia di Bordeaux. In pochi minuti montiamo una ottima cena di Natale. Dopo avere divorato con le mani il pollo innaffiato dal rosso, Coralie dà fondo alla sua riserva di Tanduay.
Il rhum Tanduay è come la Beer Lao in Laos o la Guinness in Irlanda: simbolo di un paese intero, scorre nelle vene dei suoi abitanti a fiume. Peccato che ogni tanto lo mescolano con il succo d’ananas, ma ho capito che qui i mix aleatori e improbabili sono la base della cucina locale. Sicuramente eredità degli USA.

Un piccolo aperitivo prima del cenone
Il nostro cenone di Natale (dopo)

Mentre ci scoliamo allegri la terza bottiglia, dalla chiesa vicina arriva il primo Alleluia. Ci guardiamo perplessi, poi ci dirigiamo con passo incerto verso il sagrato. Ci infiliamo tra i bambini inamidati e le donne cosparse di bigiotteria per carpire elementi esotici. Nessuno. Il nostro occhio alticcio fruga tra la folla alla ricerca di un elemento degno di nota. Nessuno. La messa è la solita, sfiancante, interminabile tiritera che serve da vetrina alle ragazze in cerca di marito. Non ci interessano: io sono obnubilato dall'alcool, Coralie è in stagione etero, Marc se l'è già bombate tutte. Un po’ delusi dal folklore locale, torniamo barcollanti al nostro Tanduay. Buon Natale! Joyeux Noël! Merry Christmas! Crolliamo tra la comunione e il segno della pace. Quando i filippini sfilano davanti casa stiamo già russando.
Ma non è finita qui. Anzi.
La notte è dolce. La brezza marina muove gentilmente le palme, la risacca accompagna le prime pigre onde sulla spiaggia di sabbia bianca. Io dormo il sonno dei giusti.
Poi, alle cinque di mattina, l'Armageddon.

Questa è la prima cosa che ho pensato al svegliarmi

Non capisco nemmeno cosa stia succedendo: so solo che le pareti della mia stanza iniziano improvvisamente a tremare, mentre un assordante frastuono scuote l'universo. Intontito e anche un poco spaventato esco fuori. Penso a un terremoto, a un tifone, a uno tsunami, in fondo da questa parti sono frequenti come un bus in ritardo.
Poi li vedo.
Davanti a me.
Una cinquantina di persone di tutte le età, dai bambini quasi in fasce alle nonne bastonemunite. Ballano musica tecno, sparata a un volume che sarebbe fuorilegge in qualunque nostra discoteca. Mi stropiccio gli occhi. Lo giuro: per un momento sono convinto di stare sognando.
Quando anche Coralie e Zaka escono dalla loro casetta, capisco che è tutto vero. Neanche Fellini avrebbe osato immaginare tanto. È quasi l’alba e questi si agitano frenetici, dimenando le cicce, cantando a squarciagola qualcosa che ricorda l'ultimo canto d'amore di una foca agonizzante. Li guardo a bocca aperta, incapace di muovermi. Steve, un canadese che sta nel bungalow accanto a me, marcia a muso duro verso il gruppo, deciso a staccare l'impianto elettrico di tutto l'isolato. Lo fermiamo in tempo.
L'apocalisse dura mezz'ora.
Finito lo strazio, si siedono e come se niente fosse tirano fuori le loro borse termiche. Sono le cinque e mezzo e tutti iniziano a fare colazione: riso, granchio bollito, pesce arrosto, mango, ganda con carne tritata, torta di ube. Ci invitano, con grandi sorrisi sudati. Non li mandiamo a fare in culo solo perché sono più grossi e più numerosi di noi.
Buon Natale!

martedì 23 dicembre 2014

V for Anda

Il solito, bel rituale. Modificare l’orario corporeo e quello dell’orologio, familiarizzarsi con il cambio della moneta locale, memorizzare una mappa e quelle quattro parole in croce che diano l’impressione (totalmente infondata) che conosci il paese come le tue tasche.
Ritrovo le monete, dopo quasi tre mesi di banconote. Un’espressività che sembra quella terrona, dopo tanta impassibilità buddica. Scompaiono le bacchette, si impone prepotente il junk food. Ma i mezzi di trasporto continuano a essere colorati e sgangherati come nel resto dell’Asia.

Il problema è quando piove, ma perchè preoccuparsi ora?
 
Arrivo ad Anda a metà pomeriggio. Il tempo di abbracciare Coralie, di prendere un bungalow in riva alla spiaggia e sono subito in giro. Un vecchietto amico di Zaka (un anglo-tedesco nomade che d’inverno va per il mondo a dare corsi di sub) inaugura la sua nuova casetta. Passa solo mezz’ora e Victoria, la figlia del vecchietto, mi racconta cazzi e mazzi suoi, della famiglia, del villaggio e di un centinaio di isole limitrofe.
Suo marito si chiama Victor, i suoi figli Vincent e Vanessa. Tutti e due maschi, i figli. Quando le chiedo perché “Vanessa” mi risponde serafica che le piaceva l’idea di una famiglia tutta con la V come iniziale. Il resto del nome è secondario, aggiunge. Il ragionamento non fa una piega. Poi con voce triste aggiunge che non ci sarà un terzo figlio. Meno male, penso io, se no l’avrebbe chiamato Volvo o Vrueykkuyt.
Victoria mi spiega che il marito le fa le corna, mi racconta tutto per filo e per segno: lei non lo lascia perché non ha i soldi per campare, lui vive a Manila e fa lavori saltuari, lei lo ama, lui forse pure, la madre di lei la accoglierebbe a casa se fosse necessario, la madre di lui è un’arpia che difende solo il suo figlioletto, lei aspetterà, lui si ravvederà, l’amore trionfa sempre, però è vero amore?, chi vivrà vedrà. Mentre parla vedo scorrere i titoli di coda e un grande “Ci rivediamo alla prossima puntata numero 186”.   


La spiaggia di Anda durante la bassa marea
Una stradina secondaria di Anda

Un arcipelago di sorprese: all'ultimo momento, Filippine!

Le più belle sorprese sono quelle inaspettate. Ma come? direte voi, una sorpresa è sempre inaspettata! Sbagliato. Se vado in Laos, che fino a sei mesi fa non sapevo manco esistesse, è ovvio che mi aspetti sorprese. A sporte. Nulla in confronto a quelle trovate nelle Filippine. 
Decido di andare in Indonesia, su indicazione di Enguerrant e Valerie. Un attimo prima di fare i biglietti do un’occhiata al meteo: tifoni, maremoti, uragani, spiagge spazzate via, traghetti affondati e Godzilla che a Natale suole devastare l’intera Sumatra.
Che fare? Tra un'ora lascio la Cambogia e non ho ancora una destinazione. Myanmar? Malesia? Bangladesh? Uno ha la dittatura militare, l'altra il turismo di massa russo, l'ultimo una gastronomia scipita. Mi arriva una mail di Coralie, che alla fine non è andata in Vietnam. Si trova a Bohol, una remota isola delle Filippine, dice che sta benissimo. Guardo il meteo di Manila: sole. Guardo la bandiera filippina, ha gli stessi colori dei paesi finora visitati: bianco, rosso e blu. Traccio una linea immaginaria che va da Kathmandu all'isola in questione, a metà c'è il Laos. Tutto quadra: la prima tappa sono stati i ghiacciai del Nepal, la seconda le risaie che accompagnano il corso del Mekong, la terza saranno le isole disseminate nell’arcipelago filippino.
Per me è più che sufficiente. Faccio il biglietto.
Sono le sei di mattina, tra meno di 12 ore sarò in un paese che fino a pochi minuti fa non pensavo di visitare nemmeno di striscio.
E poi al centro dell'isola ci sono centinaia di collinette vulcaniche che sembrano arancine: è ovvio che sarei finito lì.

Chocolate Hills, delle colossali arancine in mezzo alle palme
I minuscoli abitanti di Bohol: se li bagni di notte diventano cattivi?
Tutti insieme nella banconota da 200 pesos.
 
Per arrivare a destinazione utilizzo tutti i mezzi di trasporto che l'uomo ha inventato: tuk-tuk fino al centro di Siem Reap, poi bus fino alla frontiera, poi furgone per passare in Thailandia, poi minivan fino a Bangkok, poi treno fino all'aereoporto, poi aereo fino a  Manila, poi altro aereo fino a Cebu, poi taxi fino al porto, poi nave fino a Bohol, poi tricycle a Tagbilaran, poi corrierone fino ad Anda.
Anda è ovviamente il posto più lontano, dove finisce la strada dell'isola. E anche l'isola.
Nel frattempo, due episodi.
Il primo: nell'aeroporto di Bangkok non voglio farmi decollare. Per andare nelle Filippine devo avere un biglietto di ritorno: lo faccio in tre minuti, indicando una destinazione a casaccio tra quelle più economiche. Mi rimane il dubbio di avere prenotato un charter per il nord della Siberia, ma ho l'attrezzatura da neve in fondo allo zaino e non mi preoccupo più di tanto.
Mi preoccupo invece quando dopo essere usciti dal traffico tentacolare di Cebu il tassista accosta in mezzo al nulla, in una periferia deserta alla Blade Runner. Gli chiedo perchè ci siamo fermati, lui mi indica un punto inequivocabile al centro dei suoi pantaloni. Non capisco, o non voglio capire. Mi guarda, puntando di nuovo il dito sulla cerniera. Gli mostro una banconota, sottolineando la mia intenzione di pagare in natura. Lui indica di nuovo la cerniera, con decisione. Sventolo con maggiore vigore la banconota, confidando nel cambio con il dollaro.
Mi guardo intorno: nessuno. L'ultima macchina è passata da qui la settimana scorsa.
Gli dico che ho fretta, devo prendere il ferry per Bohol. Ma lui ha più fretta di me. Con la mano tira giù la cerniera, con un gesto rapido, mentre io aggiungo una seconda banconota di mancia.
Poi scende dal taxi e piscia sul bordo della strada.
Come sarebbe più facile se tutti parlassero inglese.

Questa è l'isola di Bohol, nelle Filippine...
...Anda è in fondo a destra, lontano dal resto del mondo. 

lunedì 22 dicembre 2014

Tappa finale: l'estasi di pietra dei templi di Angkor

Tutti mi hanno detto: non fare il coglione alternativo, vai a vedere i templi di Angkor, fidati, vale la pena anche se ci sono più turisti che al Louvre. Li ascolto. E non me ne pento.
Intanto c’è da dire che Siem Reap è molto graziosa. Costruita con gusto anche nella parte più moderna e turistica.
Faccio amicizia con Damian, il clone polacco di Moi per fisico, attitudine e storia personale. Nella pensioncina ritrovo anche Madeleine e Nicolet, e stavolta vi assicuro che non è facile: la città è grande e brulica di guesthouse, deve essere stato il destino.

Per lentezza e bellezza sembrava di vedere i pupi siciliani

Mi concedo un dei pochi momenti turistici del mio viaggio: uno spettacolo tradizionale di danza e ombre cinesi, accompagnato da un buffet in cui mi scofano di tutto davanti a una comitiva di sobri e allibiti giapponesi. Vado a dormire pieno di speranza: siamo in città e qui i galli non esistono.
Infatti. Però ci sono i party e le discoteche, per cui rimango sveglio fino all’alba sull’onda dl nuovo khmer cool electric.

Il mercato vecchio...
...e il nuovo. Souvenirs! Cazzate! Consumismo! Finalmente!

Arriva il giorno dei templi. La partenza è alle cinque, con Damian montiamo sulle nostre bici e con la scarna luce fornita dalla dinamo ci inoltriamo nel più grande complesso monumentale-religioso del mondo. Per un attimo pensiamo di essere i primi. Poi sulla strada vediamo sfrecciare accanto a noi i taxi e i tuk-tuk, i motorini e i minivan: sono le cinque di mattina e sembra di essere sul Raccordo Anulare alle cinque del pomeriggio. Ma i turisti, come ho detto in precedenza, grazie a Budda sono come un gregge di pecore. Sono tutti diretti ad Angkor Wat a vedere sorgere il sole. Saranno due o tremila. Contenti loro.
Io e Damian arriviamo che è ancora buio al Ta Prom, che incidentalmente è il più bello dei templi. Non c’è nessuno. Il gigante di alberi e stanze sacre è tutto per noi. Mi arrampico sui tetti in rovina, giusto il tempo di vedere l’alba colorare di rosa i colossali blocchi di pietra su cui si intricano altrettanto colossali radici. E di farmi cazziare da una guardia. I soliti italiani.  



 Anche Bayon Wat riesco a vederlo praticamente da solo. Mi emoziona profondamente vedere le 216 facce che guardano in tutte le direzioni, serafiche, gigantesche, mentre tu entri nel labirinto di pietra delle sue stanze.
I successivi due giorni li passo per templi e canali d’acqua. L’area, così grande da poter essere percorsa solo in bici o con mezzi motorizzati (o elefanti), comprende chilometri di stradoni, laghi, due villaggi, una scuola. Ogni tanto, dal nulla, spunta un tempio che ti mozza il fiato. Mentre vado in giro penso a come hanno preso vita i nomi sulla guida nell'ultimo mese: ogni volta che scendevo da un bus e mettevo piede nel paesino di turno diventavano polvere, colori, sapori di fritto, volti, atmosfere, stanze, emozioni. E mai - mai! - come me lo aspettavo.


Io e Damian rendiamo onore alla gastronomia locale, trangugiando dozzine di arrosticini sul pane spalmato di burro dolce come se non ci fosse un domani. Oltre a chili di fritti vari, dalla forma e dal sapore più disparati, tra cui dei leggiadri bomboloni ripieni di pesantissima crema di maiale e delle stelle fritte dolci.
Così la Cambogia mi entra lentamente nel cuore. E nel fegato.

Lungo la strada per i templi (foto di Laura Jakubowitz)
Tutto bene, se solo mettesse le frecce (foto di Laura Jakubowitz)