sabato 29 novembre 2014

Maglia rosa nel Tour de Don Khong

Con Scott e Nicolet noleggiamo delle bici e ci lanciamo nel giro dell'isola. Beh, noleggiare: incrociamo per strada una vecchietta con tre bici che stanno in piedi per miracolo. Le chiediamo se ce le dà. Lei con le dita indica il prezzo. Sono 5000 kip, mezzo dollaro. Controlliamo le ruote, sull'isola non c'è il (sempre sia lodato) asfalto. I freni non funzionano, ma tanto non servono.
Quando e dove e come dobbiamo riconsegnarle? La vecchia fa un gesto vago, come a dire che la vita è troppo breve per perdere tempo in tali minchiate. I nostri automatismi europei ci costringono a ripetere la domanda. Sento Scott che freme per chiederle dell'assicurazione per danni contro terzi, lo fermo appena in tempo. La vecchietta indica distrattamente un albero vicino: quando finiamo lasciamo le bici là sotto, in mezzo alla campagna, lei prima o poi andrà a riprenderle. Penso ai contratti illeggibili di noleggio auto, ai serbatoi da restituire pieni, alle mille postille-capestro di Hertz o Avis. E auguro lunga vita al Laos e alle sue vecchiette.

L'albero grande a sinistra è la sede dell'agenzia di noleggio


L'isola è splendida, risaie e gradi spazi aperti. Verde. Tranquillità. Silenzio. Lo stesso silenzio che c'è tra noi e i suoi abitanti.
Ecco, la lingua è un grosso problema. Non si può dire che i lao siano molto espressivi, nè che il loro linguaggio corporale aiuti. Sono sempe impassibili, sereni, amabili. E l'espressione con cui catturano un pesce è la stessa con cui comunicano la morte di un familiare. In questo non sono molto diversi da Scott.  
C'è un'unica occasione in cui non sono così. Nel periplo dell'isola incontriamo un vecchio professore che parla francese. Gli dico di slancio che moi aussi, commosso di potere finalmente conversare con qualcuno. Se avessi aspettato qualche secondo mi sarei accorto che i suoi occhi rossi invece non sono di commozione. E che ha l'alito carico di lao-lao. Ma ormai è troppo tardi: il professore attacca una pippa interminabile su solo-lui-sa-cosa. Il sole inizia a picchiare forte. Scott e Nicolet danno segni d'impazienza, mentre l'ubriaco si lancia nella difesa di solo-lui-sa-che. Quasi si attacca alla bicicletta, quando me ne vado scappando

Un orizzonte basso che sembra uscito da una tavola di Gipi
Il pacifico Mekong ci scorre tutto intorno

Tutti mi guardano stupiti perchè giro in bici senza maglietta. In Asia ci si protegge meticolosamente dal sole, con 40 gradi all'ombra tutti vanno in maniche lunghe e con grandi cappelli: la pelle abbronzata non è sinonimo di spiaggia e ombrelloni ma di duro lavoro nei campi. Me ne fotto e vado a petto nudo. I lao mi guardano. Io sorrido. Aspettate vent'anni e vedrete come le vostre figlie si cambieranno il costume due volte al giorno per non mostrare il segno del bikini.
A un certo punto incrociamo due farang (francesi, ovviamente) in moto. Tradito dall'infido terricio, proprio davanti a noi, uno di loro scivola e si fa qualche metro scartavetrandosi contro il suolo. Il suo amico rimane paralizzato. Allora io e Scott ci avviciniamo per chiedergli se ha bisogno d'aiuto. Quando si rialza ha metà viso che gli penzola sul mento. Frammenti degli occhiali conficcati sulla guancia. Sangue come nemmeno in un film a basso budget. Mentre io svengo, lui ride: molto sangue non vuole dire niente, ci rassicura, e la pelle si può sempre ricucire. Ovviamente è un chirurgo: chi altri può mettersi a ridere con il volto ridotto in poltiglia? Il giorno prima Nicolet era svenuta per un colpo di sole, quindi lo indirizziamo verso una specie di presidio medico. Lo accompagnerei, se non fosse per paura di rivederlo in faccia (quella che gli è rimasta, almeno).


Qui hanno ricucito il medico francese dal riso facile

La  cosa più divertente è il ritorno. Ci attardiamo a mangiare uno zuppone su una grande palafitta, la notte ci sorprende nell'altra punta dell'isola. Andare in bici, su una sterrata sconnessa, nel buio più presto, è dura. A Scott fuoriesce la catena dal telaio una dozzina di volte. Imparo un sacco di espressioni pittoresche in inglese.
Avanziamo in questa formazione. 
Io davanti, che avviso gli altri gridando non appena sobbalzo per una buca. Al centro Scott, che mette alla prova i suoi riflessi e la sua perizia meccanica ogni volta che la catena esce fuori (oltre che il suo vocabolario). Chiude Nicolet, con la funzione di verificare che per un guasto tecnico Scott non vada fuori strada o rimanga indietro, scomparendo per sempre nella notte nera. Ci si tampona in continuazione. Anche l'olandese non è male, quanto a bestemmie.
Ci buttiamo nella guesthouse, abbandonando le biciclette sotto l'albero in riva al fiume.

Questo il panorama dalla terrazza della nostra guesthouse

Il giorno dopo andiamo anche nella più piccola e più turistica Don Khon. Sì, solo un g di differenza.
A parte un delirante progetto francese di ferrovia con l'isola di fronte di Don Det (l'unica linea ferroviaria mai costruita in Laos) e delle spettacolari cascate, nulla di rilevante. I soliti farang facendo tubing nella melma.
Mi domando quale ragione economico/geografico/antropologica fa sì che un'isola diventi una piccola Riccione in miniatura mentre quella accanto - praticamente identica - rimane deserta e ignorata. Che migliaia di turisti all'anno si affollino su un pezzo di sabbia di un chilometro di diametro, mentre tutto attorno c'è un paradiso inesplorato. Non la trovo. Ricorro alla saggezza di Obelix: ils sont fous, ces touristes!

Yoga su cascate (foto di Laura Jakubowitz)

Ils sont fous, ces français!

La Festa della Luce a Muang Sing

Muang Sing è un paesino del Far West , silenzioso, con gli empori scuri, i ballatoi di legno tarlato, i carri che passano lenti per l'unica strada polverosa. Sostituite i cavalli con le motociclette e le bande di cowboy con le 14 tribù che popolano la provincia e avrete un'immagine calzante del posto. Le tribù si differenziano per altitudine. Sì, avete capito bene: altitudine, non altezza. Ognuna sta a un'altitudine diversa della montagna, e non sforano mai: avranno un altimetro incorporato, dico io, ché cambiare di etnia per qualche metro è sempre un problema. 

Preparandosi per la festa, con addosso il vestito migliore...
... e aspettando un camion che porti in collina.
 
Ora, non so quale destino benevolo mi accompagna in questo viaggio, ma becco tutte le feste locali più importanti. L'evento più atteso nell'intera provincia è la Festa della Luce. Già, come in Nepal. Che fantasia, direte voi... indovinate il nostro Natale a che tipo di festa pagana si è furbamente sovrapposto? In ogni caso non so a che luce si riferiscano, visto che non ci sono in vista equinozi o solstizi. Forse a quella che vedono in fondo al tunnel dopo una bella pipona d'oppio. 

Si balla e si danza, ognuno con il proprio costume tradizionale...
...mentre più in là lo sticky rice si vende in comode canne di bambù.

Come una colossale sagra paesana, con tanto di banchetti che vendono sticky rice, monete, stoffe, palloncini. Vengono da tutte le montagne vicine, vestiti a festa con coloratissime gonne e copricapi tradizionali, a migliaia, anziani e bambini, su carri e trattori, moto e biciclette, per riunirsi intorno alla stupa sulla collina sacra e fare offerte, pregare e ingozzarsi di frittelle. Quando io e Coralie arriviamo, alle nove di mattina, gli uomini sono già ubriachi di lao-lao come dei trichechi. 

Il sacro stupa Xieng Tung

venerdì 28 novembre 2014

Non sono uccelli, non sono mammiferi: sono IL MALE

Da giorni non incontro più zanzare. Per forza, erano tutte là in quella cazzo di giungla tailandese al confine con il Myanmar. Comunque la mia nemesi ha solo cambiato nome: ora è il gallo.
Questo animale non ha altro scopo nella vita che fecondare galline  - e fin qui sarebbe anche comprensibile - e rompere la minchia agli onesti turisti che la notte vorrebbero riposare. Sfatiamo subito il mito secondo cui il gallo canta all'alba: l'orrido animale canta SEMPRE, quando gli pare, da mezzanotte in poi, e smette SOLO quando è sicuro che il resto del mondo è ben sveglio e incazzato.
E come canta! Non esiste animale che produce un suono con tanto vigore e costanza. I lupi ululano, i cani latrano, le mucche muggiscono: ma solo qualche minuto, una mezz'oretta al massimo, poi si stancano e si mettono a fare qualcosa di più interessante. I gatti possono miagolare tutta la notte, ma solo quando sono in calore. I galli no: dalla nascita alla morte (che mi auguro sopraggiunga presto per tutta la loro dannata razza) non smettono MAI. Un suono sgradevole e sgraziato, ché se cinguettassero uno li sopporterebbe pure.

Perfino sui francobolli! Fateli anche eroi nazionali, già che ci siete!

Ebbene, il Laos è la patria dei galli. Sono dappertutto, li mettono come statue davanti alle case, sono protagonisti di leggende popolari (come quella del cacciatore e dei sette soli) e per qualche imperscrutabile motivo la gente li adora. Io da quando ho passato la frontiera dormo appena un pugno di ore a notte e ho delle occhiaia che sembro un tossico allo stadio terminale. 
Ho deciso che farò della lotta contro i galli la mia ragione di vita. Da oggi in poi chiamatemi Sterminator.

L’oppio dei popoli (tagliato malissimo)

Siamo nel profondo nord del Laos, a ridosso della frontiera. A Luang Nam Tha, come da copione, una grinzosa e colorata vecchietta ci vende l'oppio. Non fumare oppio nel cuore del Triangolo d'oro è come non mangiare la pizza a Napoli. Enguerrant non perde tempo e ne ordina una dose ca' pummarola n'goppa. Nel frattempo abbiamo imbarcato nel gruppo Coralie, ennesima francese. Sono in viaggio da un mese e mezzo e di tutti i milioni di backpackers incontrati solo due sono italiani: li liberano unicamente a luglio e agosto? Sono comodamente nascosti nei resort all inclusive? 
Orgoglio nazionale o meno, sono l'unico dei quattro a non stare male la notte. Il mio corpo è ormai immune a cibi avariati, vermi del bambù, veleni, droghe e compagnia brutta. 

Mercato: una spacciatrice vista di spalle

La mattina dopo alle cinque veniamo svegliati da un'assordante cacofonia di jingles dozzinali: come una musica da sala d'aspetto, però sparata a migliaia di decibel. Saltiamo in aria. Ci sporgiamo intontiti dalle finestre. Davanti a noi dei giganteschi altoparlanti trasmettono qualcosa che rimbomba per tutta la valle. I bestemmioni dei francesi, ancora con un terribile cerchio alla testa, sono molto eleganti. 
Più tardi scopro che si tratta del notiziario locale: non essendoci giornali (se non uno, e solo su abbonamento) ed essendo poco diffuse televisione e radio, il governo comunista e monopartitico si premura di far sapere ai propri cittadini quante opere buone ha compiuto il giorno prima. All'alba, a volume da rave party. Tanto puoi votare solo loro.


Per fortuna esistono altri modi di cominciare la giornata

giovedì 27 novembre 2014

Piccoli imprevisti: abbandonati in mezzo al nulla!

La mattina, dopo un paio d'orette di pacifica navigazione, ci viene comunicato che a causa della stagione secca da lì in poi le acque del Nam Tha sono troppo basse per essere navigabili. Cioè, questo lo capiamo dopo mezz'ora di gesti e disegni tracciati sulla sabbia del fiume. Dobbiamo scendere e continuare con mezzi di fortuna. Questo non era l'accordo. Secondo i francesi il tipo della piroga deve caricare della merce e tornare indietro, con un gran sorriso gli augurano che coli a picco alla prossima roccia. Ci dirigiamo con lo zaino in spalla in mezzo al nulla.
Perchè sì, siamo in mezzo al nulla.
Nalae è un villaggetto di quattro case in cui l'unico mezzo pubblico è partito pochi minuti fa. Di passare qui la notte non ci pensiamo proprio. Ci mettiamo in mezzo alla strada polverosa e assaltiamo tutti i carri/camion/trattori/furgoni che hanno la sventura di passare da questi paraggi. Tutti ci schivano/schifano con abili derapate, finché un autista distratto si avvicina troppo. Con un salto siamo sul cassone del camion, in compagnia di quattro simpatici locali che ci offrono sigarette e sguardi perplessi. 

Compagni fumanti o belanti. O stuzzicadentanti (foto di V Berland)

Viaggiamo in piedi, su una sterrata di montagna che sembra Beirut dopo i bombardamenti. Il camion si ferma ad ogni villaggio a caricare qualcosa: prima delle casse, poi due capre, perfino una motocicletta. L'autista, probabilmente per farci pentire di essere saliti, prende le curve a 90 Km/h. A ogni buca, cioè ogni 3 secondi, facciamo dei salti da strappare applausi scroscianti ai canguri. Sulla sinistra, in fondo a uno strapiombo di una ventina di metri, la verde tranquillità del Nam Tha ci guarda paciosa.
Ma noi siamo dei turisti alternativi, mica dei farang qualsiasi: quindi resistiamo, sprezzanti del pericolo e della polvere rossa inghiottita a palate. Invece la capre no. Loro fiutano il dramma e iniziano a darci sotto, pisciando e scacazzando dappertutto. Le misteriosi leggi della natura hanno voluto che la defecazione della capra fosse ergonomica: le palline di merda rotolano che è un piacere, raggiungendo ogni angolo del cassone. Insieme al piscio fresco. Ci carichiamo gli zaini in spalla e ci arrampichiamo sulle assi di ferro laterali, mentre l'autista sghignazza e pigia sull'accelleratore. Un consiglio: se viaggiate con delle capre dallo stomaco indisposto non indossate mai sandali Geox. È vero, respirano, come dice la pubblicità: ma respirano perchè sotto, nelle suole, sono bucati.

Io ed Enguerrant controvento (foto di V. Berland)
La pozza non è della moto, ma della capra (foto di V. Berland)

mercoledì 26 novembre 2014

La temibile ubriacatura da lao-lao

Verso il tramonto arriviamo al villaggio. Attracchiamo sulla riva, nella parte benestante, in cui spiccano due o tre case in muratura. Attraversiamo un ponte di bambù intrecciato e arriviamo dall’altra parte della collina, in quello che subito definiamo “la periferia”: capanne di bambù e lamiera, un bufalo, bimbetti scalzi che rincorrono polli. I polli ci vedono e scappano. I bambini ci vedono e si fermano di botto. Ci guardano straniti, alcuni spaventati, altri sospettosi: non hanno mai visto un farang prima d'ora. Una vecchia sdentata ci offre la sua pipa. Enguerrant crede che sia oppio e allunga la mano. Ma non c'è tempo per il calumet della pace, il sole sta calando e dobbiamo tornare nel quartiere-bene.

Mentre attraverso il ponte tra ricchi e poveri (foto di V. Berland)
Case popolari (foto di Valerie Berland)
La vecchia con la pipa (foto di Valerie Berland)

Si cena con il nonno, i nostri anfitrioni e i figli rimangono nella capanna-cucina, mentre la nonna da ore è intenta a fare bollire qualcosa in un enorme calderone. Il nonno ci offre fave secche, grossi semi di girasole e una specie di patatine fritte. Tutto buono, soprattutto le ultime. Poi il vecchio si alza, scoperchia un bidone e ci mostra dei grossi vermi bianchi che brulicano sul fondo. Mi sembra di cattivo gusto, in fondo stiamo cenando, ma non conosco ancora a sufficienza il galateo lao per dargli del cafone. Il nonno insiste e mi indica ancora il bidone con i vermi. Non gli faccio caso e continuo a mangiare le patatine. Il nonno mi indica il bidone, poi le patatine. Allora guardo anch'io le patatine. Poi guardo il bidone. Poi guardo di nuovo le patatine. Le patatine guardano me. Solo che il loro sguardo, a differenza di quello dei bufali d'acqua, è spento. Capisco che le patatine sono vermi del bambù fritti. Siamo turisti alternativi, no? Ne afferro una grande manciata e ne chiedo ancora, sono saporiti e croccanti.

Sa come andrà a finire e se la ride (foto di V Berland)

Intanto la nonna porta a tavola una bottiglia di lao-lao, il temibile liquore locale ottenuto distillando il riso. Questo stava facendo da ore. A giudicare dalla capienza del calderone, contiene il fabbisogno annuale per tutto il villaggio. Ma il largo sorriso del nonno al porgermi la bottiglia mi fa capire che non è così. Lo proviamo. Stesso grado alcolico dell'etanolo industriale. Sapore assente, visto che brucia la totalità delle papille gustative al suo passaggio. Nelle raccomandazioni ai viaggiatori stilate sul sito del Ministrero degli Esteri  l'ubriacatura da lao-lao è al terzo posto di pericolosità, dopo la scampagnata a Chernobyl e la lettura pubblica della Bibbia a Kabul.
Dopo pochi minuti siamo tutti e quattro ubriachi come scimmie sotto il tavolo, a cantare contemporaneamente La vie en rose (i francesi), Venditti (io, non chiedetemi il perchè) e un tradizionale canto di caccia lao (il nonno). In perfetta armonia. Senza stonare una nota. Dopo di che, il buio.

"Patatine" fritte in stile lao
Se me li presentavano così non li mangiavo nemmeno ubriaco




Tranquillità verde con esplosivo a bordo


Si parte alle sei. Io, Valerie ed Enguerrant, il tipo della barca e sua moglie. Mai saputi i loro nomi, nonostante l'abbiano ripetuti mille volte. D'altronde Enguerrant l'ho chiamato "Ehi, tu!" per quattro giorni di seguito, finché non mi ha scritto la sua mail su un foglio. 
È una nebbiosa alba di novembre e dopo una breve sosta per fare colazione su uno zatterone galleggiante ci dirigiamo lentamente a nord. La nostra è una piroga a motore, stretta e lunga, scoperta. Attorno a noi sfrecciano le speed boat, piccole imbarcazioni su cui è montato il motore di una Ferrari F40. Il pilota ha un casco in testa, i passeggeri un rosario tra le mani. Nonostante la forza della fede, ogni anno ci lasciano le penne in molti. Lo scafo è dipinto con colori vivaci, probabilmente per facilitare le ricerche quando si frantuma in mille pezzi contro le rocce affioranti. Ovviamente la speed boat era la mia prima scelta, ma i francesi chissà perchè si sono opposti.

Potevo provare il brivido della speed boat...
...e invece mi godo il lento Nam Tha (foto di Valerie Berland)
Dopo mezz'ora lasciamo le acque marroni e limacciose del Mekong per passare a quelle verdi e limacciose del Nam Tha. La piroga procede senza fretta, ci aspettano due giorni di viaggio, il borbottio del motore fa da sottofondo al silenzio che è sceso su di noi. Mi metto comodo e mi riempio gli occhi di verde. Verde è il fiume, verdi le foreste di bambù, verdi gli alberi piegati sulle sponde, verdi i villaggi che fanno capolino all'improvviso in mezzo alla foresta. Ogni tanto ci fermiamo per caricare dei fusti di metallo che presto riempiono la barca. Mi avvicino: è gas liquido, abbiamo a bordo una decina di bomboloni di butano, siamo una santabarbara galleggiante. I francesi vi si siedono sopra e fumano felici le loro sigarette. Sorrido. Niente può turbare la mia verde tranquillità. 

Ci addentriamo nella foresta (foto di Valerie Berland)
Butano! Butano! Chi vuole butano? (foto di Valerie Berland)

Osservo le rive passarmi lentamente accanto. Osservo le trappole dei pescatori lasciate pazientemente ad aspettare. Osservo le grandi rocce lisce sui bordi del fiume. Anche le rocce si girano e mi osservano. La mia verde tranquillità ha un sussulto. Guardo meglio, non sono rocce. Il fiume è disseminato da gruppi di bufali d'acqua, l'animale domestico per eccellenza in queste zone (l'equivalente dello yak himalayano), così chiamati perchè si immergono completamente sotto la superficie dell'acqua facendo spuntare solo la schiena e la capoccia. Che buffi. Chissà come sono in umido con i germogli di bambù.

Penichella al fresco

Il viaggio procede in silenzio. Noi non parliamo una parola di lao, loro non parlano una parola di inglese. Niente, nemmeno i numeri. L'intera conversazione è affidata ai disegni tracciati sulla sabbia della riva durante la pausa pranzo. Capiamo così che i nostri anfitrioni hanno due figli, un maschio di 15 anni e una femmina di 12. O che si sono sposati quando lui ne aveva 15 e lei 12. O che hanno 15 figli maschi e 12 femmine. O che 15 maschi e 12 femmine è la composizione del villaggio. In ogni caso anche loro riescono a chiedermi, con lo sguardo muto e stupito, del perchè sia single e senza una dozzina di discendenti.

martedì 25 novembre 2014

Farang!


È la prima parola che imparo in lao: farang è l’uomo bianco, occidentale, straniero, turista. La maggioranza dei farang che arriva qui vuole percorrere il Mekong: due giorni di slow boat che ti portano dritto dritto alla città di Luang Prabang. In ogni barcone stipano 80, spesso 100, turisti. Accalcati, sudati, esaltati, mitragliando centinaia di scatti fotografici al secondo, sobbalzando con gridolini di sorpresa a ogni esotico rutto di zanzara. L'idea mi atterrisce.

Così immagino le slow boats...
...e così sono nella realtà. Cioè molto peggio.

Da dietro le rughe astute miss Changpeng mi propone una piroga con cui risalire il Nam Tha, un fiume più piccolo che va a nord invece che a sud. Non è il Mekong, ma vuoi mettere evitare i turisti e fare l'alternativo? Sempre di due giorni si tratta, e il fiume è altrettanto affascinante. Mi spara un prezzo esorbitante. Con quella cifra mi ci compro l'intera guest house, le rispondo, compresa sua sorella che ci guarda sottecchi da un angolo in penombra. Miss Changpeng non si scompone: basta che io trovi altri 4-5 fessi (non dice "fessi" ma farang, che è praticamente un sinonimo) con cui dividere la spesa ed è fatta. Ma io mica sono come quel farang di McNeally che ha perso la guerra. Indosso la mia migliore faccia di bronzo e sono già per strada, fermando ogni turista che incontro. Finalmente becco due simpatici francesi, anche loro allergici ai rutti di zanzara e agli scatti fotografici di massa. Sono tipi svegli. Si va al molo a parlare direttamente con i pescatori. Già, i moli. I moli non sono altro che le sponde fangose del fiume, dove per un paio di chilometri sono sparse barche, barconi e piroghe. Alla rinfusa, come bastoncini dello Shangai. Nessuno sa darci indicazioni precise. Neanche imprecise. Ma noi siamo turisti alternativi, no? Ci mettiamo tre ore. Si fa notte, ci ritroviamo nel fango fino ai polpacci, a sgolarci senza ritegno. Nam Tha! Nam Tha! Immaginatevi tre coreani che verso mezzanotte camminano nella melma del lungofiume di Ostia gridando Tevere! Tevere! e vi farete un’idea. 

Il molo turistico di Huay Xay, quello delle slow boats


In fondo al buio più pesto vediamo muoversi delle ombre. Luang Nam Tha! Luang Nam Tha! sbraitano mentre si avvicinano. O sono turisti alternativi anche loro o abbiamo trovato i nostri uomini. La fortuna è dalla nostra parte, ma solo a metà: nessuno dei pescatori spiccica una parola d'inglese che sia una. Situazione di stallo. Ci si urla gli uni agli altri Luang Nam Tha! Luang Nam Tha!, ripetutamente, aspettando forse che prima o poi, stanco di tanto chiasso, dal cielo discenda lo Spirito Santo e ci conceda il dono delle lingue. Finché uno di loro, evidentemente poco familiare con il vangelo, tira fuori un cellulare e telefona alla figlia. Per telefono, al buio, sprofondati nel fango scivoloso, in un inglese più sbilenco delle loro piroghe, ci imbarchiamo in contorte negoziazioni alla Totò e Peppino De Filippo. Alla fine stabiliamo l'ora e il prezzo. Ce ne andiamo con il dubbio di avere contrattato diversi chili di pesce fresco invece di un passaggio in barca. Male che vada domani ci facciamo una gran frittura mista. 
L'importante è avere fregato miss Changpeng.

La nostra piroga! (foto di Valerie Berland)

lunedì 24 novembre 2014

Il Mekong, la grande madre marrone

L'ufficio immigrazione chiude presto, ci affrettiamo. Japà mi precede, si fa timbrare il passaporto e trascina la sua pesantissima valigia di cartone verso la riva fangosa. Vomiterà anche per il mal di mare, oltre che per il mal d'auto? Per sicurezza, mi sistemo lontano da lui.  
È la prima volta che passo una frontiera su una barcaccia macilenta. Su questo legno fradicio faccio conoscenza con il Mekong, uno dei fiumi più grandi del mondo, che dal Tibet e dalla Cina percorre tutto il sudest asiatico, facendo da confine a Myanmar, Thailandia e Laos, per poi attraversare la Cambogia e sfociare infine a mare nel Vietnam. Il Mekong è la grande madre marrone di tutti i corsi d'acqua, dispensatrice di riso e pesci gatto giganti e fertile fango, colonna vertebrale del trasporto locale con migliaia di piroghe che la percorrono ogni giorno (in Laos l'asfalto è arrivato da poco, o non ancora è arrivato), dea paciosa e sonnolenta, latrina suo malgrado, luogo di ricreazione e abluzioni rituali, grande piazza di mercato e scenario di grandiosi tramonti. 
Decido che da adesso il mio viaggio seguirà le sue pigre anse. Anche perchè i paesini che iniziano per Chiang sono finiti.

Il Mekong (foto di Valerie Berland)

Sono in Laos. Fino a pochi mesi fa non sapevo neanche che questo paese esistesse. Per questo l'ho scelto. E anche perchè il nome finisce in consonante sorda, chè al mondo ce ne sono pochi. 
A Huay Xai finisco tra le grinfie delle incartapecorite sorelle Changpeng. Una dormicchia in un angolo, con un occhio semiaperto, pericolosa come un cobra. L'altra è un'acida e sarcastica vecchietta a metà tra nonna Abelarda e un membro a caso dei Monty Python. Parla cinque lingue, è furbissima, ti rigira come un calzino, me la immagino quarant'anni fa maîtresse in un locale malfamato di Saigon mentre tra una sigaretta e una bottiglia di liquore discute dei piani di guerra con il capitano McNeally. La BAP guesthouse delle sorelle Changpeng è stata messa su a immagine e somiglianza di quell'antico locale: finestre senza vetri, vecchi e rugginosi ventilatori che fanno rumore più che vento, foto sbiadite di un'Indocina rimasta solo sui libri di storia, polvere e blatte che risalgono alla stessa epoca, decorazioni retrò sparse a casaccio insieme alle ciabatte degli ospiti, una luce calda e legnosa. Mancano solo le signorine discinte e i soldati in mutande per le scale: io vado e vengo dalla doccia comune in boxer, ma ho fatto il servizio civile e non vale.
  
Miss Changpeng infinocchia il pollo di turno
L'inquietante ballatoio della GAP guesthouse

venerdì 21 novembre 2014

L'importanza di chiamarsi Chiang (o Japà)

Qui al Nord mi sorridono tutti. Cammino per strada e mi sorridono. Ordino qualcosa e mi sorridono. Chiedo un passaggio in camion e mi sorridono. Devo decidermi a mettermi i pantaloni lunghi.

Viaggio alternativo vuol dire ignorare con nonchalance questo...
...il candido Wat Rong Khun!

Dopo Chiang Mai e Chiang Dao andrò a Chiang Khong. Ho deciso di passare per tutti i posti che iniziano per "Chiang". Ognuno sceglie l'itinerario a modo suo, io sono scrittore e mi lascio guidare dai nomi.
(però come un fesso ho saltato Chiang Rai, annoiato dai soliti templi pieni di trine tipo Wat Rong Khun).

Un songthaew in azione

Arrivo a Chiang Khong dopo un'estenuante viaggio in songthaew, cinque ore di curve. Insieme a me un pittoresco giapponese. In realtà non sono per niente sicuro che sia giapponese, però da ore non fa altro che sorridere, indicando se stesso e dicendo "Japà". Forse si chiama Japà. È il fatto di sorridere senza motivo che me lo fa identificare come giapponese. Ha circa 60 anni e i vestiti più o meno della stessa età, una enorme valigia di cartone, gli occhiali rattoppati con lo scotch, si muove nervosamente. Ogni tanto vomita dal finestrino, poi si gira verso di me e mi sorride. Japà! Japà! - fa orgoglioso mentre si passa il fazzoletto sporco sulla bocca. Poi sporge la testa e vomita di nuovo. E torna a sorridermi felice. Japà! Japà! Per cinque ore. Come non volergli bene?

giovedì 20 novembre 2014

Cercasi disperatamente contrabbandieri e prostitute

Sulle scalinate di una splendida pagoda dorata al centro nella foresta di Chiang Dao un ex-pilota di jet militari, attualmente tecnico di TV via cavo (come elettricista guadagna quattro volte tanto, mi assicura, e adesso investe in oro e gomma), tenta inutilmente di convertirmi al buddismo. Dev'essere il cugino del cartolaio di Katmandu. 
Lo sto ad ascoltare unicamente perchè ha una moglie bellissima: appena Giunco Abbagliante si alza io tolgo il disturbo. Peccato, eravamo arrivati ai mudra, ai naga dorati dalle cinque teste e alle virtù capitali. La quarta - fa in tempo a spiegarmi, con uno sguardo improvvisamente severo - recita "non desiderare la donna d'altri". Meglio strapparsi l'occhio destro e buttarlo nella Geenna, penso: è più spettacolare. 

Qui mi appare Giunco Abbagliante, più bella dei naga dorati

Lascio la giungla dietro di me e vengo risucchiato in una girandola di bus.
Stanotte dormo nella Mae Sai Guest House. A pochi minuti dal paesino, un angolo tranquillo gestito da due thai di mezza età. Un pugno di palafitte in bambù in riva al fiume, che mormora soporifero la sua ninna nanna fangosa. Sull'altra riva, a una ventina di metri scarsi, il vietatissimo Myanmar. Vita dura, quella dei contrabbandieri locali.

Mae Sai. Sarà un caso che caffè e fiume hanno lo stesso colore?

Tutto bene, se non fosse che rimango intrappolato nella cazzo di capanna di bambù. Di quelle cose che non possono succedere neanche a studiarle con cura: mi cade la chiave tra la porta e la zanzariera interna, contemporaneamente il chiavistello esterno si incaglia contro il telaio. Sorrido tra me e me. Figurati. Gli amici tossicodipendenti del centro dove ho fatto servizio civile mi hanno insegnato ad aprire una porta blindata con il tagliaunghie. Questione di secondi. Pfui. Mi metto al lavoro. Utilizzo di tutto, dall'asciugamano alla gruccia di metallo (per l'occasione srotolata), per far scorrere i chiavistelli. Dopo mezz'ora penso che le porte blindate occidentali sono un monumento alla cialtroneria. Niente. Mi scortico due dita. Ricorro al più tecnico dei rimedi: do forti calci al telaio, nonostante un foglietto sbiadito alla parete mi ricordi che qui dentro è vietato portare prostitute, praticare il gioco d'azzardo e scardinare telai. Niente. Chiamo, ma nessuno risponde. I contrabbandieri devono essere già tutti al lavoro. Anche le prostitute. Riprovo. Niente. Disperato, cerco di uscire dalla finestra. Mi scortico un fianco. I bestemmioni iniziano a coprire il ronzio delle zanzare. Ne esco dopo un'ora, sanguinante e con la gruccia ridotta a brandelli.

Rischio di passare la vecchiaia in questa capanna

Ah, la prima capanna a sinistra, appena entrati, sotto un albero alto. Se doveste alloggiare qui non scegliete quella. L'albero ha dei frutti simili a piccole mele che di notte cadono a grappoli, rimbombando sul tetto di bambù e facendo tremare tutta la struttura con un effetto colpi-di-mortaio che potrebbe disturbare il sonno dei più sensibili.
Sì, è dove ho dormito io. Decisamente avrei dovuto prendere la caramella benedetta a Bangkok.


mercoledì 19 novembre 2014

Triangolo d'oro, regno di trafficanti e zanzare

A Chiang Mai rimango 20 minuti, il tempo di cambiare autobus. Avevo già prenotato la guest house, ma poco prima di arrivare leggo di montagne bellissime vicino al confine. Viaggio così, improvvisando, cambiando anche all'ultimo minuto la mia destinazione, solo perchè qualcuno mi parla di una grotta o di un villaggio. Detto così sembra molto bohemien, ma si fosse trattato di una suite da 500 dollari avrei pianificato il viaggio con dieci anni di anticipo.


A Chiang Dao vado a visitare le grotte in cui sono scolpiti i sacri Budda. Tento di entrarci senza guida e senza lanterna, facendo il gradasso con la lucettina del mio Nokia 1212, ma dopo un paio di metri una craniata alla roccia fa tremare gli imperturbabili sorrisi di pietra. La mia guida è una ragazza di circa vent'anni, paffutella e timida, parla uno stentato inglese. Rimango a chiacchierare con lei e le sue colleghe. Le solite domande di rito: sei sposato? quanti figli hai? prima ancora di chiederti il nome. Le solite risposte di rito: ho moglie e due figli, costretti in Europa per mancanza di vacanze. Una volta sola ho detto la verità e mi sono ritrovato sommerso di imbarazzantissime domande tutte del tipo "perchè alla tua età non ti sei ancora riprodotto?". Per anni ho rintuzzato invano quelle, solerti e stupite, di mia nonna: non ho intenzione di farmi triturare i coglioni anche dagli sconosciuti.
Mi dicono che sono bello. Domando loro il perchè. Tutte concordano sul fatto che ho un bel naso. Ah, ecco. I vantaggi del gap culturale.

Ci sono, ma non si vedono (le succhiasangue)
Mi infilo da solo nella giungla. Altamente sconsigliato dall'autista del songthaew che mi porta sul limitare dell'inferno verde, per cui non esito un attimo. Sono nel famigerato Triangolo d'oro, al confine con il Myanamar e il Laos, tra alberi alti 30 metri, liane e inestricabili foreste di bambù. Le piantagioni di oppio sono poche e ben nascoste, ma la metanfetamina arriva ancora a fiumi. La temperatura supera quella siciliana in un giorno di scirocco, però l'umidità rende il tutto mille volte peggio. Penso al gelo himalayano e sospiro. Per quel che posso, perchè qui anche sospirare è un'impresa. Mi muovo con circospezione, da un momento all'altro potrebbe saltare fuori un vecchio vietcong convinto che la guerra non è ancora finita. Intanto milioni di zanzare mi circondano e mi annebbiano la vista. Non credevo che di una specie animale potessero esistere così tanti esemplari. E che potessero essere tutti concentrati in un paio di metri cubici. Fanno scempio di me e della mia carne. Capisco perchè gli USA hanno perso la guerra. E anche perchè avrei dovuto prendere la caramella benedetta del tempio a Bangkok. Ne esco dopo un paio d'ore, sfinito e soddisfatto, ma soprattutto sicuro di avere preso la malaria.

martedì 18 novembre 2014

Bangkok: santini e santoni

Vado a fare i biglietti per il treno. La linea a nord è bloccata per lavori, l’unico modo per raggiungere Chiang Mai è il bus, il primo è disponibile domani.
Sono intrappolato in questa megalopoli di acciaio, oro e cemento, senza cuore e senza centro. Dove sono i negozietti di sacchi a pelo taroccati di Thamel? Dove i templi induisti ricolmi di divinità sporche e annoiate? Dove i taxi selvaggi che si incastrano l’uno con l’altro dentro i vicoli bui? Rassegnato e di malumore, vado a fare un giro.
Ma Bangkok mi sorprende. Mai ho visto tanti baracchini di cibo per strada, nemmeno nelle nostrane fiere paesane. E questi misteriosi spiedini mi sembrano tutti buonissimi. Ho solo ventiquattro ore prima di lasciare la città. Decido di fare un pasto ogni 40-50 minuti: ciò mi salverà e mi rallegrerà la giornata.


Arrivo al Democracy Monument, confluenza di due stradoni enormi. C’è una discreta folla. Ad occhio e croce, un milione di persone (la questura direbbe 200mila). Vedo maxischermi, maxiamplificatori, maxitendoni sui viali, musica a palla sul palco, gente con le bandierine e dei colori in faccia che urla e canta. Un concerto in pieno giorno, in mezzo alla città? Avrò beccato la Woodstock del sudest asiatico? Ci sono troppi anziani, non me li immagino (né me li voglio immaginare) a fare orge, sballati dalle anfetamine, quando cala la sera. Mi avvicino. Tutti hanno dipinti in faccia o sul corpo, in fascette al collo o sui cappellini, i colori blu e bianco. Una festa sportiva? I Bangkok Catfish hanno finalmente vinto lo scudetto di bocce dopo 150 anni, contro gli amati-odiati Siamese Brothers, in un derby che sarà ricordato negli annali? La Tailandia ha vinto la Coppa Asia di bob a due?
Finalmente scopro che si tratta di una manifestazione politica. Contro la presidentessa del governo, sorella dell’ex-primo ministro esiliato per corruzione. Come se la sorella di Craxi prendesse il suo posto. O un amico stretto, tipo Berlusconi. Da noi sarebbe fantascienza.Cioè, sarebbe fantascienza che la gente manifestasse per questa ragione.
Gli indignados locali occupano la città. Ma siccome sono asiatici fanno le cose per bene: un quartiere intero della capitale è stato chiuso (ecco perché il traffico di ieri!), i concerti e i discorsi politici si susseguono no-stop da giorni, decine di migliaia di persone sono accampate in blocco permanente. Non capisco bene i dettagli della protesta, la politica locale è più incasinata delle strade di Katmandu. Sta di fatto che mezza città è qui, ad agitare i santini blu e bianchi dei leader dell’opposizione. 

L'altra metà della città è invece affaccendata nella visita di un santone: il Budda vivente? un dotto teologo? un famoso guru? Non capisco bene i dettagli dell’evento, la religione locale è più incasinata della politica locale. Decine di migliaia di persone sono accampate in blocco permanente nella zona dei templi (dorati e barocchi, nulla hanno a che fare con le belle e semplici stupa nepalesi). Un’organizzazione da Live for Africa e un merchandising che farebbe impallidire Padre Pio. File chilometriche. Pagode che rigurgitano gente. Aspettano, mangiano, venerano la sacra effige del vecchietto. In una sala a centinaia cercano di far stare in piedi una monetina: un rituale propiziatorio, penso. Forse chi ci riesce - come ne “La spada nella roccia” - diventa il nuovo santone. Ci provo. Ci sto un bel po’. Inumidisco di saliva il bordo della moneta. Ma non è con dei vili trucchetti che ci si guadagna la santità: mi dovrò accontentare di scrivere sceneggiature.
Altri si buttano come indemoniati su delle caramelle (benedette? costose? rare?) che un monaco butta a intervalli regolari sulla folla all’entrata di un mastodontico tempio dorato. Me ne arriva una in faccia e la regalo a una vecchietta accanto a me. Quella mi guarda sbalordita e poi arraffa veloce la caramella, prima che io ci ripensi, con un mezzo sorriso di ringraziamento. L’altro mezzo sorriso è un evidente “ma quanto sei fesso, turista ignorante e miscredente”. Capisco che ho appena perso la possibilità di diventare ricco, felice, immortale o qualcosa del genere. Allora mi dirigo nella zona in cui danno cibo gratis e mi scofano l’impossile, percorrendo tutta la gastronomia thai - che non è poca cosa - in mezz’ora: secondo la legge del karma meritavo una grossa ricompensa e non ho intenzione di aspettare un benevolo incontro o una dubbia illuminazione.