lunedì 24 novembre 2014

Il Mekong, la grande madre marrone

L'ufficio immigrazione chiude presto, ci affrettiamo. Japà mi precede, si fa timbrare il passaporto e trascina la sua pesantissima valigia di cartone verso la riva fangosa. Vomiterà anche per il mal di mare, oltre che per il mal d'auto? Per sicurezza, mi sistemo lontano da lui.  
È la prima volta che passo una frontiera su una barcaccia macilenta. Su questo legno fradicio faccio conoscenza con il Mekong, uno dei fiumi più grandi del mondo, che dal Tibet e dalla Cina percorre tutto il sudest asiatico, facendo da confine a Myanmar, Thailandia e Laos, per poi attraversare la Cambogia e sfociare infine a mare nel Vietnam. Il Mekong è la grande madre marrone di tutti i corsi d'acqua, dispensatrice di riso e pesci gatto giganti e fertile fango, colonna vertebrale del trasporto locale con migliaia di piroghe che la percorrono ogni giorno (in Laos l'asfalto è arrivato da poco, o non ancora è arrivato), dea paciosa e sonnolenta, latrina suo malgrado, luogo di ricreazione e abluzioni rituali, grande piazza di mercato e scenario di grandiosi tramonti. 
Decido che da adesso il mio viaggio seguirà le sue pigre anse. Anche perchè i paesini che iniziano per Chiang sono finiti.

Il Mekong (foto di Valerie Berland)

Sono in Laos. Fino a pochi mesi fa non sapevo neanche che questo paese esistesse. Per questo l'ho scelto. E anche perchè il nome finisce in consonante sorda, chè al mondo ce ne sono pochi. 
A Huay Xai finisco tra le grinfie delle incartapecorite sorelle Changpeng. Una dormicchia in un angolo, con un occhio semiaperto, pericolosa come un cobra. L'altra è un'acida e sarcastica vecchietta a metà tra nonna Abelarda e un membro a caso dei Monty Python. Parla cinque lingue, è furbissima, ti rigira come un calzino, me la immagino quarant'anni fa maîtresse in un locale malfamato di Saigon mentre tra una sigaretta e una bottiglia di liquore discute dei piani di guerra con il capitano McNeally. La BAP guesthouse delle sorelle Changpeng è stata messa su a immagine e somiglianza di quell'antico locale: finestre senza vetri, vecchi e rugginosi ventilatori che fanno rumore più che vento, foto sbiadite di un'Indocina rimasta solo sui libri di storia, polvere e blatte che risalgono alla stessa epoca, decorazioni retrò sparse a casaccio insieme alle ciabatte degli ospiti, una luce calda e legnosa. Mancano solo le signorine discinte e i soldati in mutande per le scale: io vado e vengo dalla doccia comune in boxer, ma ho fatto il servizio civile e non vale.
  
Miss Changpeng infinocchia il pollo di turno
L'inquietante ballatoio della GAP guesthouse

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