lunedì 5 gennaio 2015

Naufragio!

La barca che da El Nido ci porterà a Coron Town parte con un'ora di ritardo. Iniziamo bene. Il molo è di un paio di metri più alto della barca, per cui saltiamo sul tetto della stessa, scavalcando il parapetto di legno a mo’ di pirati all'arrembaggio e ci caliamo da una botola. E vabbè. Almeno siamo partiti.
Dopo una mezz'ora ci fermiamo, problema meccanico, devono cambiare una cinghia del motore. Cosa vuoi che sia.
Dopo un'altra ora un altro stop, stavolta il motore riprende a funzionare annaspando rumorosamente. Ma non ci allarmiamo: è una nave di linea, eh!, mica un bangka di bambù legato insieme con il filo da pesca. 
La terza volta rimaniamo fermi per almeno un'ora, nessuno capisce bene il perchè. Un pescatore di un'isola vicina ha il tempo di venirci a trovare, mentre un passeggero si butta in acqua con il figlioletto. Io salgo sul tetto ad ammirare il panorama mozzafiato di isole sparse nel mare smeraldo, gli altri 15 passeggeri si mettono comodi. Perchè stressarci? Siamo nelle Filippine, un piccolo imprevisto ci sta. Si riparte.


Sono le quattro quando, sempre seduto in beata solitudine sul tetto, sento il motore fermarsi di colpo. Un marinaio sale furiosamente, si toglie la maglietta bianca e inizia ad agitarla verso poppa. Non capisco. Si arrende all'ineluttabilità del destino? Al dio Poseidon o comunque si chiami qui? Poi aguzzo la vista e vedo un'imbarcazione lontana: il marinaio sta cercando di attirarne l’attenzione. Ovviamente quella scivola lentamente verso l'orizzonte, ignara del nostro dramma. Già, perchè intuisco dall'espressione del marinaio che le cose si mettono male. Domando che succede. Siamo rimasti senza olio, dice. Non ci credo. Sto per chiedergli dov'è il distributore più vicino, ma un altro marinaio mi sfreccia davanti e corre come un pazzo a liberare l'ancora (tenuta sul tetto per ragioni estetiche, suppongo). Mi giro: la corrente ci sta rapidamente trascinando verso le rocce di un'isola dietro di noi. Altri trenta metri e ci saremmo schiantati.


Siamo fermi il mezzo al nulla. Una certa preoccupazione inizia a serpeggiare. Non c'è campo, i cellulari sono muti, e questi disgraziati non hanno nemmeno una radio per comunicare. Scrutiamo l'orizzonte, ma non passa più nessuna nave.
Passano le ore. Inizia a fare scuro. Il mare inizia ad agitarsi. Noi pure. Non abbiamo più acqua né cibo. Gli sguardi di tutti convergono nervosamente verso un russo in carne: con quella pancia sarà un'ottima cena, e ne avanzerà anche per la colazione di domani. Il russo si mette in un angolo, secondo me ha capito. Poi il miracolo. Il cellulare di un passeggero risuscita, chiamiamo aiuto.
Dopo un'altra ora arriva un minuscolo bangka con trenta latte d'olio, cinque bottiglie di Coca-Cola e alcune confezioni di crackers. I nostri volti si distendono in grandi sorrisi. Il russo tira un sospiro di sollievo. Si riparte. Con un piccolo dettaglio: la barca non è equipaggiata per viaggiare di notte, visto che in teoria doveva arrivare nel primo pomeriggio. Non ha luci.
Si procede per cinque lunghissime ore nel buio più assoluto, schivando scogli e isolette, mentre i cattolicissimi marinai pregano SS Maria dei Naufragati di farci arrivare interi. Io, sdraiato sul tetto, mi godo un cielo stellato come poche volte ho visto in vita mia.

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