Da Lukla in poi non esistono strade. Tutto viene portato a
spalle o, per i più ricchi, a dorso di
yak.
Tutto vuol dire TUTTO. Se hai bisogno di un forno, di una porta, di mattoni, di
un sacco di cemento, c’è solo un modo: fascia in testa, schiena curva e via, a
macinare chilometri. È quello che fanno tutti, dalla nascita, da innumerevoli
generazioni. Vedo ragazzini con bombole di butano correre giù per pendii
ripidissimi. Uomini chini sotto il peso di interi tronchi d’albero. Mi dicono che
possono portare una media di 50-60 chili a testa, in quelle condizioni. Non mi
dicono però qual è la media di anni che raggiungono, in quelle stesse
condizioni.
Lungo il cammino incontriamo diverse tea house dove dormire. Semplici, ma confortevoli. L’unico
riscaldamento è dato da una stufetta nella stanza centrale, accesa per un paio
di ore al massimo e alimentata da cacca di yak.
Non hanno intenzione di lavarsi con questo freddo, i miei tre
trekking partners. Sozzi, oltre che caciocavalli.
Hanno lo zaino zeppo di salviette umidificate, sembrano un asilo nido in
trasferta. Io mi preparo il mio bel secchio di acqua gelida, mi spoglio, me lo
getto addosso e canticchiando “Ghiaccio bollente” di Tony Dallara mi sfrego le
ascelle con vigore. È notte, fuori ci sono -15 gradi.
Sólo un aries podría ser tan bizarro...
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