giovedì 13 novembre 2014

Mercenari in parapendio

Ho un paio di giorni liberi prima di lasciare il Nepal, decido di andare a Pokhara.
A un paio di centinaia di chilometri da Kathamandu, quindi un giorno di viaggio. 
Che fare in questa sonnolenta e incantevole città sul lago? Penso che dopo l'aeroporto di Lukla il parapendio ci sta bene: in fondo buttarsi - correndo! - dalla collina nel vuoto dà la stessa sensazione di insicurezza e caduta libera del decollo da bimotore della Yeti Airlines. Ma almeno qui ti godi il vento in faccia. 



Che delusione. A parte le spettacolari montagne dell'Annapurna dietro di noi e le aquile sotto di noi, e una cinese che vomita in aria la colazione accanto a noi, niente di che. Una corsa in un taxi locale, ormai lo sapete anche voi, è più adrenalinica. Unica nota di colore il mio pilota, un russo di due metri con un aspetto da capitano del Corpo di Forze Speciali dell'Armata Rossa. Muscoli anche dietro le orecchie, mento squadrato con il righello, mani grandi quanto il mio torace. Ma sarà stato un regolare o un mercenario, di quelli che si occupano dei lavori sporchi? E ha lasciato la Russia per sua volontà o ha torturato con troppo zelo un nemico del popolo? E se fosse solo una mia fantasia? Se invece è semplicemente un appassionato della palestra? Alla fine non ce l'ho fatta e mentre volavamo gliel'ho chiesto: "Cosa facevi prima di questo lavoro?". Mi guarda glaciale dietro i suoi occhiali scuri e con una voce da oltretomba emette, secco, due sillabe: "Army". Mi sta per mostrare le ferite sul torace e il modo in cui uccideva i nemici, ma deve schivare in fretta il vomito della cinese.

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