Sono 12 posti omologati, noi siamo 21 adulti più una bambina. Strano che non ci sia nessuno tra l’autista
e la portiera, è spazio sprecato.
Sei ore di viaggio per uno
stradone di montagna con dei crateri al posto dell'asfalto, a massima velocità,
il precipizio a portata di mano. Sono poggiato sulla cassa/amplificatore laterale
del furgone, che a volume da discoteca spara l'equivalente locale del duetto
Toto Cutugno e Anna Oxa. In falsetto. Tutto l'album. In loop. Per sei ore.
Le
buche ci fanno battere la testa contro il soffitto del pulmino, a ritmo di
musica. Divento la base di percussioni delle -chiamiamole pure così- canzoni. È
stato dimostrato che i prigionieri di Guantanamo resistono meno di mezz'ora a
sollecitazioni simili, poi spifferano tutto. Cerco affannosamente un ufficiale della CIA per mettere fine a questo supplizio, ma intorno a me ho solo passeggeri rassegnati. Il tipo alla mia sinistra sembra dormire.
Sicuramente è morto: nessuno può assopirsi in tali condizioni. Quando in curva
cieca sull'abisso superiamo un’autocisterna grande come una montagna volgo lo sguardo a Ganeshi, tatuato
sul finestrino tra due svastiche iridescenti. Mi sorride pacioso, dietro la
sua proboscide, come a dire “Non hai ancora visto niente, figliolo mio”.
(Infatti il taxi che mi aspetta a Kathmandu è VERAMENTE pericoloso. Il tipo lo mette in moto facendo scoccare una scintilla tra due cavi scoperti dietro il sedile: non dico altro.)
(Infatti il taxi che mi aspetta a Kathmandu è VERAMENTE pericoloso. Il tipo lo mette in moto facendo scoccare una scintilla tra due cavi scoperti dietro il sedile: non dico altro.)
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