sabato 15 novembre 2014

Ora conosco l’inferno (o almeno la sua colonna sonora)

Si torna a Kathmandu. Due possibilità: 1) il bus turistico, che scarto immediatamente in quanto vetero-borghese 2) un minivan che ha visto tempi migliori, e i tempi migliori erano quando ancora giaceva abbandonato dal rottamatore. Lo prendo al volo, mentre strombazza in un mercato di verdura e quasi investe due signore.
Sono 12 posti omologati, noi siamo 21 adulti più una bambina. Strano che non ci sia nessuno tra l’autista e la portiera, è spazio sprecato.
Sei ore di viaggio per uno stradone di montagna con dei crateri al posto dell'asfalto, a massima velocità, il precipizio a portata di mano. Sono poggiato sulla cassa/amplificatore laterale del furgone, che a volume da discoteca spara l'equivalente locale del duetto Toto Cutugno e Anna Oxa. In falsetto. Tutto l'album. In loop. Per sei ore.


Le buche ci fanno battere la testa contro il soffitto del pulmino, a ritmo di musica. Divento la base di percussioni delle -chiamiamole pure così- canzoni. È stato dimostrato che i prigionieri di Guantanamo resistono meno di mezz'ora a sollecitazioni simili, poi spifferano tutto. Cerco affannosamente un ufficiale della CIA per mettere fine a questo supplizio, ma intorno a me ho solo passeggeri rassegnati. Il tipo alla mia sinistra sembra dormire. Sicuramente è morto: nessuno può assopirsi in tali condizioni. Quando in curva cieca sull'abisso superiamo un’autocisterna grande come una montagna volgo lo sguardo a Ganeshi, tatuato sul finestrino tra due svastiche iridescenti. Mi sorride pacioso, dietro la sua proboscide, come a dire “Non hai ancora visto niente, figliolo mio”.
(Infatti il taxi che mi aspetta a Kathmandu è VERAMENTE pericoloso. Il tipo lo mette in moto facendo scoccare una scintilla tra due cavi scoperti dietro il sedile: non dico altro.)

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