Don Khong è una delle isole di Si Phan Don (letteralmente
"Quattromila isole"), la più grande di un'arcipelago che si apre sul
Mekong un attimo prima di arrivare in Cambogia. Sull'isola non c'è niente, se
non quattro villaggetti e un pugno di guesthouse. L'elettricità è arrivata da
un paio d'anni, il bancomat da appena quattro mesi (ma tanto non funziona,
gettando nel panico i pochi farang presenti), il mojito grazie al cielo non sanno
ancora cosa sia. Insomma, un paradiso.
Molte "isole" sono solo mucchi di sabbia che emergono dal fiume |
Alcune, poche, sono abitate |
Ci arrivo con una chiatta che sembra uscito da una stampa steampunk. Una cinghia collega il motore della chiatta a una pala esterna, che lentamente muove il pezzo di legno galleggiante. Il nostro bus arriva sulla riva, la aspetta, ci sale sopra, scende sull'isola, senza mai spegnere il motore. Il tutto dura più di un'ora. Allora mi ricordo che per l'intero tragitto, anche quando ci fermavamo per mangiare, il motore rimaneva sempre acceso. Chiedo il perchè all'autista. Mi risponde che nel bus non funzionano le marce: non entra la prima, per esempio, quindi o si parte in seconda o non si parte. Ci ho appena fatto otto ore di viaggio notturno, su 'sto rottame.
Il Caronte arrugginito che ci porterà in Paradiso |
Caronte scarica e si prepara a tornare sulla terraferma |
Sul bus rivedo una simpatica olandese, Nicolet, incontrata qualche giorno fa. Avevamo mangiato insieme dei pipistrelli arrostiti, per poi scoprire delusi che erano semplici uccelli: basta una cattiva pronuncia e bird [bəd] diventa bat [bæt]. Verso l'alba sullo stesso bus è salito lo scozzese con cui ero stato nelle viscere di Kong Lo. Sì, lui, "l'ennesima faccia senza nome che scompare inghiottita dalle carte geografiche".
La vita sorprende sempre.
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