mercoledì 10 dicembre 2014

The Loop, seconda tappa. Come morire stupidamente (e da soli)

Il Loop è l'Avventura con la A maiuscola, d'accordo.
Quello che nessuno dice è che il tratto di strada da Lak Sao a Tha Lang è l'inferno sulla terra. Io e Tony ci buttiamo a capofitto nella sterrata che ci si apre davanti appena usciti dal piccolo villaggio di Lak Sao, ingoiando polvere a quintali, con l'entusiasmo dei giovani e degli incoscienti (Tony ha solo pochi chilometri sul groppone).

L'ultimo avamposto civilizzato

La Parigi-Dakkar in confronto è l'Autostrada del Sole: questo pezzo di loop attraversa la giungla remota per 62 lunghi chilometri di dune di sabbia, fango, pietrisco, terra rossa come i diavoli che l'hanno creata. In salita e discesa. Un ragazzino accanto a me prende a gran velocità un dosso e fa un salto di almeno cinque metri. Un trattore ha rotto l'asse e langue arrugginito ai bordi di un fosso. Le capre hanno una certa difficoltà a spostarsi sulla pista accidentata.
Passano i chilometri, uno dietro l'altro. Tony ruggisce orgoglioso, beata gioventù. Io cerco di mantenerlo dritto mentre slitto come su una pista di sci. Non esistono indicazioni, cartelli, bivi, segnali di riferimento di alcun tipo. In tasca ho una fotocopia sgualcita con una cartina disegnata a mano e la vaga informazione che prima o poi incontrerò un posto dove dormire. Questo è tutto. 
L'unica cosa certa è che il tempo stringe: dobbiamo arrivare entro il calar del sole alla guesthouse o le orde di Mordor scenderanno su di noi. Accelero. Dopo un paio di ore di equilibrismi e bestemmioni bilingue entriamo nel cuore della foresta. Arriva il silenzio. Cupo, piombigno, minaccioso. Da un bel po' non si vedono più passare moto o furgoni, ultime vestigia di una civilizzazione inghiottita dal fango e dalla polvere.

Sei pronto, Tony? Sei caldo?

Inizia a fare buio. Dal folto degli alberi dei sinistri e invisibili uccelli elevano il loro canto di morte (parenti di quelle merde dei galli, sicuramente). Non si vede un cazzo. Prendo tutti i dossi e le pietre possibili. In alcuni tratti posso guidare solo stando in piedi, puro motocross. Sono stanco.
Io e Tony ci incoraggiamo a vicenda, come soldati in trincea, ma è dura. Su un insidiosissimo curvone perdo il controllo. In tutti i sensi. Dopo un paio di testacoda degni di Hollywood cado a terra, mentre la ruota di Tony continua a girare a vuoto per lunghi, interminabili secondi. Inizio a innervosirmi. La Russa sibila malevolo che potrebbe essersi staccata la candela positronica. Mi rialzo, rialzo Tony, ci controlliamo, non ci siamo fatti niente ma siamo ricoperti di fango fino al buco del tubo di scappamento. 
Ci rimettiamo in marcia, il sole è al lumicino. Adesso fa anche freddo. All'improvviso vedo per terra una marea di grossi lombrichi scuri che attraversano la strada. Guardo meglio, sono serpenti. Sottilissimi e lucidi. Passo in mezzo a centinaia di serpenti neri come la morte. Accelero, evitando di mettere il piede in terra, affidandomi a Santo Tutto, mentre li sento contorcersi sotto le ruote. Come un film vedo la mia fine in technicolor: in panne, in mezzo alla giungla, di notte, da solo, ricoperto da un groviglio di queste minuscole creature che immagino essere più mortali del basilisco.

Dove ho messo il rosario?

Ma se sono qui a scrivervi è perchè c'è un lieto fine, cari amici.
Di colpo, mentre maledico in ordine il Loop, la guida Lonely Planet che lo consiglia, i viaggiatori entusiasti e le rispettivi madri, la foresta si apre. Un lungo ponte. Un'immensa laguna dalle cui acque spuntano decine di splendidi e misteriosi alberi bianchi. Senza foglie, si stagliano contro il telo rosato del tramonto. Ho le lacrime agli occhi. No, non per la poesia e il tramonto, di cui me ne fotto altamente. Mi commuove quel che vedo oltre il ponte.

Così appare l'indomani, con la luce del giorno e il senno di poi

Luci! Esseri umani! Un villaggio! Casa! Abbraccio Tony, che singhiozza commosso dal profondo del suo carburatore.
Tutto è bene quel che finisce bene: una doccia calda per tutti e due, birra ghiacciata per me e miscela ghiacciata per lui. Alla guesthouse ci sono una mezza dozzina di persone. Emozionati e ancora provati ci raccontiamo le curve più difficili, rievochiamo i guadi più pericolosi, ricordiamo i compagni morti lungo la strada, esibendo le ferite di guerra come reduci della campagna di Russia. 
Il più è fatto, domani si torna a calpestare il  - sempre sia lodato - asfalto. Ma se mi avessero spiegato prima a cosa sarei andato incontro la mia risposta sarebbe stata: COL CAZZO (ormai lo dico meglio degli autoctoni). Per fortuna nessuno me l'ha spiegato.

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