venerdì 19 dicembre 2014

Saline e wat di pietra nei dintorni di Kampot

Kampot mi piace, ha un'aria decadente e tranquilla, familiare. C'è qualcosa negli edifici vecchi che ti fa sentire bene, dev'essere la loro assoluta mancanza di superbia. Dopo avere scoperto delle ottime cipolle fritte e dei grossi noodles bucati, mi avventuro con la mia fedele moto khmer lungo le saline, accanto alle Fish Islands, dove non arrivano i turisti. Un panorama desolato e brullo, surreale, meraviglioso.

Le saline di Kampot non sono molto conosciute...
...forse perchè il pepe locale è il più famoso di tutta la Cambogia?
Anche il durian (da non confondersi con il jackfruit) è piuttosto
famoso, a giudicare dall'enorme momunento che gli hanno dedicato

Invece NON andate al Bokor Park: oltre a essere su una montagna in culo al mondo, su una strada che ha più curve di Pamela Anderson (sì, lo so, sono i riferimenti della mia generazione ormai passata), non c’è nulla da vedere. Dentro un enorme parco naturale i vietnamiti stanno costruendo un orrendo casinò di lusso per turisti danarosi. A parte il bel wat con la vista a strapiombo sul mare,  non vale la pena arrivare fin qui.

Una chiesa (abbandonata), la prima che vedo in Asia
Il panorama che si ammira dal wat: in fondo, il mare

Vale la pena invece il ritorno. Ho inforcato la moto da pochi metri e mi blocca una guardia. La mia mano corre al portafoglio: siamo in Cambogia, gli ammollo un biglietto di 500 riels e amici come prima. Invece il tipo mi chiede gentilmente se può scendere con me, ha finito il suo turno. Gli dico di sì. Mi chiede se può guidare lui. Gli dico di no. Insiste. Gli spiego che la moto è noleggiata e che se succede qualcosa sono cazzi con l’assicurazione. Non capisce la parola assicurazione. Insiste. Gli chiedo perché. Mi dice che sta arrivando un suo collega, anche lui deve scendere a valle. Lo guardo negli occhi, offeso: e tu credi, amico khmer, che non abbia mai guidato un cinquantino con tre persone a bordo? Per chi mi hai preso?
Sale anche il collega, mettendosi a cavalcioni sulla targa. Io metto in seconda e scendo con la disinvoltura di chi sa che la vita non è eterna. A ogni tornante di montagna (e sono molti) sento sussultare i miei passeggeri. Percepisco l’odore della paura. Il tipo torna a domandarmi se può guidare lui. Il mio no è categorico. Cazzi loro, penso: mica sono io che ho fatto l’autostop. Passano i chilometri e i loro commenti passano dal tremebondo “Guido io, per favore!” a un “però!”, fino ad arrivare al “Sai guidare!” quando supero un camion in curva.
E tutto questo senza avere mai guidato prima una moto con tre persone a bordo.

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