lunedì 22 dicembre 2014

Tappa finale: l'estasi di pietra dei templi di Angkor

Tutti mi hanno detto: non fare il coglione alternativo, vai a vedere i templi di Angkor, fidati, vale la pena anche se ci sono più turisti che al Louvre. Li ascolto. E non me ne pento.
Intanto c’è da dire che Siem Reap è molto graziosa. Costruita con gusto anche nella parte più moderna e turistica.
Faccio amicizia con Damian, il clone polacco di Moi per fisico, attitudine e storia personale. Nella pensioncina ritrovo anche Madeleine e Nicolet, e stavolta vi assicuro che non è facile: la città è grande e brulica di guesthouse, deve essere stato il destino.

Per lentezza e bellezza sembrava di vedere i pupi siciliani

Mi concedo un dei pochi momenti turistici del mio viaggio: uno spettacolo tradizionale di danza e ombre cinesi, accompagnato da un buffet in cui mi scofano di tutto davanti a una comitiva di sobri e allibiti giapponesi. Vado a dormire pieno di speranza: siamo in città e qui i galli non esistono.
Infatti. Però ci sono i party e le discoteche, per cui rimango sveglio fino all’alba sull’onda dl nuovo khmer cool electric.

Il mercato vecchio...
...e il nuovo. Souvenirs! Cazzate! Consumismo! Finalmente!

Arriva il giorno dei templi. La partenza è alle cinque, con Damian montiamo sulle nostre bici e con la scarna luce fornita dalla dinamo ci inoltriamo nel più grande complesso monumentale-religioso del mondo. Per un attimo pensiamo di essere i primi. Poi sulla strada vediamo sfrecciare accanto a noi i taxi e i tuk-tuk, i motorini e i minivan: sono le cinque di mattina e sembra di essere sul Raccordo Anulare alle cinque del pomeriggio. Ma i turisti, come ho detto in precedenza, grazie a Budda sono come un gregge di pecore. Sono tutti diretti ad Angkor Wat a vedere sorgere il sole. Saranno due o tremila. Contenti loro.
Io e Damian arriviamo che è ancora buio al Ta Prom, che incidentalmente è il più bello dei templi. Non c’è nessuno. Il gigante di alberi e stanze sacre è tutto per noi. Mi arrampico sui tetti in rovina, giusto il tempo di vedere l’alba colorare di rosa i colossali blocchi di pietra su cui si intricano altrettanto colossali radici. E di farmi cazziare da una guardia. I soliti italiani.  



 Anche Bayon Wat riesco a vederlo praticamente da solo. Mi emoziona profondamente vedere le 216 facce che guardano in tutte le direzioni, serafiche, gigantesche, mentre tu entri nel labirinto di pietra delle sue stanze.
I successivi due giorni li passo per templi e canali d’acqua. L’area, così grande da poter essere percorsa solo in bici o con mezzi motorizzati (o elefanti), comprende chilometri di stradoni, laghi, due villaggi, una scuola. Ogni tanto, dal nulla, spunta un tempio che ti mozza il fiato. Mentre vado in giro penso a come hanno preso vita i nomi sulla guida nell'ultimo mese: ogni volta che scendevo da un bus e mettevo piede nel paesino di turno diventavano polvere, colori, sapori di fritto, volti, atmosfere, stanze, emozioni. E mai - mai! - come me lo aspettavo.


Io e Damian rendiamo onore alla gastronomia locale, trangugiando dozzine di arrosticini sul pane spalmato di burro dolce come se non ci fosse un domani. Oltre a chili di fritti vari, dalla forma e dal sapore più disparati, tra cui dei leggiadri bomboloni ripieni di pesantissima crema di maiale e delle stelle fritte dolci.
Così la Cambogia mi entra lentamente nel cuore. E nel fegato.

Lungo la strada per i templi (foto di Laura Jakubowitz)
Tutto bene, se solo mettesse le frecce (foto di Laura Jakubowitz)

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